Cous cous,
del regista franco tunisino Abdellatiffe Kechiche, è uno dei film più
sorprendenti degli ultimi anni. Visto a Venezia, ha lasciato un segno
indelebile e un ricordo vivo. La novità dell'opera (la terza, dopo
Tutta colpa
di Voltaire
e
La schivata)
sta nel riscoprire il «segreto» del cinema, ovvero (citando Godard) che
«nella vita, come nel cinema, non c'è nulla di segreto, nulla da chiarire,
bisogna solo vivere e filmare».
Sembra facile a dirsi. Ci vuole il tempo di una vita, quella di Kechiche e
della sua famiglia, e il tempo per prenderne le distanze e trasformare
quella vita in qualcosa di romanzesco, e cinematografico.
Cous cous
racconta così la vita di una famiglia allargata franco-araba e di una
comunità magrebina sulle rive del Tirreno marsigliese, in un piccolo porto
di mare. Parte da suggestioni autobiografiche per inserirle in una trama
metaforica, accoglie e abbraccia i ricordi per distenderli in una
prospettiva più lunga. Lo spunto narrativo sa di metafora: un lavoratore
portuale, padre di una famiglia numerosa che ha abbandonato per vivere in
una stanza e frequentare una donna sola con figlia, viene licenziato.
Invece di deprimersi, decide di trasformare un'imbarcazione, attraccata al
porto, in un ristorante con specialità di cous cous di pesce. Per farlo ha
bisogno dell'aiuto delle due famiglie, di moglie e amante, di figli
naturali e acquisiti. Per riuscire deve accettare il conflitto che ne
consegue.
Lontano dal «neorealismo magico» che trasforma la realtà in sogno,
l'escamotage narrativo sprigiona la vita nel film, il suo coacervo
indistinto in utopia e necessità. Kechiche libera la comunità magrebina e
la Francia della provincia dai cliché in cui si è soliti raccontarli,
mettendo in scena il conflitto in tutti i suoi aspetti, interni ed
esterni, liberando i personaggi dalle loro gabbie. In quali film, ad
esempio, si racconta il sentimento d'amore e la vita sessuale di un
immigrato di prima generazione, proletario arabo, padre di una famiglia
chiassosa e litigiosa, che lascia la casa senza troncare i rapporti, e
rinnova la sua passione verso una donna sola con figlia? Quale film
riesce, come fa
Cous cous e in una sola scena, a mettere a nudo il
sentimento di razzismo culturale che contrappone diverse comunità di
immigrati? E ancora come è ben detta la distanza abissale tra gli uomini
che fecero l'impresa, immigrati di primo arrivo, e i loro figli e nipoti,
ambientati e omologati, incapaci di programmare un futuro diverso, capaci
solo di impedire quello dei genitori con la loro superficialità e
sbadataggine? Per questo, e per cento altri motivi, Cous cous è un film
nuovo. |
Il
bellissimo film di Kechiche, autore della Schivata, narra di un anziano
magrebino che cerca di aprire nel porto di Sete, periferia industriale del
mondo, un ristorante etnico su un barcone, specialità il cous cous di
pesce, anche per saldare i conti coi parenti. Ritratto di gruppo, famiglie
miste litigarelle, bimbi sul vasino e ladri di moto. Soprattutto una
richiesta forte di dignità, la denuncia del piccolo razzismo che serpeggia
non solo nel Sud francese. Fedele allo stile-puzzle estremo che non fa
sconti, il regista offre solo metà speranza, ma con una vitalità etica e
una voglia sincera di comunicare che entrano nel cuore. È vincitore morale
della Mostra di Venezia, dove la giovane Hafsia Herzi ha sedotto tutti con
la sua danza del ventre: super cult. |