Buena Vista Social Club |
"Noi crediamo nei sogni" dice una scritta su un muro della vecchia Havana. Si riferisce ad altri sogni, naturalmente, ma sembra un commento più che mai appropriato a quello che vediamo raccontato in Buena Vista Social Club: il ritorno alla ribalta - dopo quarant'anni - di un gruppo di talentosissimi musicisti cubani che la storia, le mode, le vicende della vita, gli alti e bassi cubani avevano contribuito a sciogliere, disperdendo un patrimonio di divertimento e di ingegno musicale. La storia del gruppo e del suo improvviso ritorno al successo è stata molte volte raccontata: basti ricordare che i "superabuelos", i supernonni, come li chiamano adesso a Cuba, sono stati rintracciati e tirati fuori dal loro quarantennale silenzio da Ry Cooder, che il disco da loro registrato è diventato un successo mondiale, che hanno vinto il Grammy, e che la loro vita è ricominciata a tempo di musica. Wim Wenders, in uno dei suoi momenti di umore felice, ricostruisce questa vicenda con libertà e devozione, senza mai forzare la mano, senza avventurarsi in letture politiche o sociali - si accenna per un attimo alla "crisi di ottobre" e se compare Castro, in una vecchia foto mentre gioca a golf con il Che, è solo per scherzare sul fatto che il Che, quel giorno, l'ha lasciato vincere - abbandonandosi al puro piacere della musica e della simpatia dei suoi personaggi. Cuba e L'Avana, il Malecon invaso dalle onde e le case tarlate dalla salsedine, le strade maltenute e i grandiosi vecchi palazzi, fotografati con molta libertà e grandi contrasti di colori da Jorg Widmer, parlano da soli e per allusioni: della difficoltà della vita, dell'ironia e della malinconia di questa bellissima gente, della musicalità di un popolo. I superabuelos sono simpaticissimi e belli, dal veterano Compay Segundo, classe 1907, che, dice, fuma da ottantacinque anni, progetta non si sa quanto seriamente di fare il sesto figlio e dà la ricetta per il brodo contro la sbronza, a Ruben Gonzales, classe 1919 ("il più grande solista di piano che io abbia mai sentito", secondo Ry Cooder), che si era ridotto a non avere più un pianoforte, da Omara Portuondo, l'Edith Piaf cubana, classe 1930, stile da regina e voce da brivido, a Ibrahim Ferrer, del 1927, che canta sempre con il suo berrettino da devoto della Santeria - la religione popolare cubana. La loro musica è travolgente ed elettrizzante: l'amore che portano al loro paese - la cui bandiera sventola nell'ultima scena del film sul loro trionfo alla Carnegie Hall, in una sorta di innocente provocazione agli ospitanti Stati Uniti - finisce per sedurre anche lo spettatore. |
Irene Bignardi - La Repubblica |
Un gruppo di antiche glorie della musica tradizionale cubana (Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo...), da decenni passati nel dimenticatoio, vengono rimessi insieme dal chitarrista Ry Cooder per realizzare un disco e una tournée. È l'occasione per realizzare uno splendido affresco cinematografico in cui Wenders cattura con pudore il cristallino talento e l’insopprimibile gioia di vivere di questi straordinari musicisti. |