Tra suoni immagini colori sguardi e commozioni
Wenders
comunica "totalmente"
il suo cinema, fatto di tutti i sensi possibili, mixati in un concentrato
di riflessione, teoria, emozione, passione, deliberata dichiarazione
d'amore, per il cinema, per la vita. [...] Dunque tutto nasce su commissione,
che meraviglia! Come a Hollywood! O come in Francia per la splendida
serie
Tous les sarcons.
Un documentario su Lisbona. È, per Wenders, il piacere di tornare
sul luogo dove girò Lo
stato delle cose. Cinema come
piacere di girare, appunto, come prima, il mondo, la pellicola, le
idee, ecc... È poi trasformare il tutto in un super-appunto su vita,
calore, musica, suoni, luci, cinema. Cioè trasformare un documentario
su una città, bellissima, Lisbona, in un film, in cui la città pulsa
nei fotogrammi, nel vagare di Phillip Winter/Rudiger Vogler
Nel corso del tempo
come Alice nella città,
Fino alla fine del mondo...
Wenders adora e rispetta le sue città. Le vive tanto intensamente
da farle sue, immagazzinandone gli umori, trattenendone i respiri,
i fruscii, vi si immerge completamente. È forse questo suo essere
continuamente "straniero in terra straniera" che gli fa
avere questa attenzione, quasi devozione per ciò che non gli appartiene
ma a cui vorrebbe appartenere. Egli
sa bene che in questo suo peregrinare in giro per il mondo non è più
di nessun luogo ormai. Oppure di tutti, splendido cineasta apolide,
cosmopolita, eppure così intimamente "europeo", così legato
a doppio-triplo filo con la cultura millenaria di una "nazione"
incompiuta, eppure ormai tanto "unica" («cambiano le
lingue - dice Phillip - la musica, le notizie sono diverse...
ma i panorami parlano lo stesso linguaggio, raccontano tutti le stesse
storie di un vecchio continente pieno delle sue guerre e delle sue
tregue...»). Tutto parte dalla città, per finire, come sempre,
con il cinema. Ma il cinema e la città moderna sono legati l'un l'altra,
e l'uno non avrebbe senso senza il respiro profondo dell'altra [...]
Wenders ci parla di cinema, visione, di una città magica, ma non rinuncia
a mettere in scena il fulcro, da sempre, del suo cinema. L'amicizia per
Friedrich "smuove" Phillip verso Lisbona, nonostante abbia un piede
ingessato e difficoltà di movimento. L'amore per la bella Teresa lo
tratterrà in città, nonostante la sua presenza sia "inutilizzata" da
Friedrich, perduto tra i mille rivoli di una città magica. E nella
splendida scena dell'incontro con i Madredeus (che non sono una scoperta
wendersiana, essendo da tempo nei primissimi posti della hit-parade
portoghese - merito di Wenders comunque averli "mostrati" al resto del
mondo...), che possiamo vedere la "lezione" del cineasta di Düsseldorf. La
dolce melodia proviene da lontano e Phillip la insegue per i corridoi,
fino a "trovarla" in una stanza spoglia, dove il gruppo sta suonando
Guitarra. Winter la ascolta, affascinato. Splendidamente Wenders non
"taglia" o "dissolve" la canzone, ma ce la restituisce nella sua
interezza, meraviglioso atto di devozione e al contempo di rispetto per la
musica, in un'epoca dove il frammento regna sovrano, e dove ormai le
canzoni sono dei piccoli jingle raccolti dentro spot televisivi. Ma
Wenders va oltre e, quasi provocatoriamente, ci invita all'ascolto -
totale - di Ainda, 10-15 minuti di film-musica integrale, che
travolge le passioni di Phillip e dello spettatore. Non c'è bisogno di
"mostrare" oltre, per capire il fascino delle emozioni: i sentimenti
esplodono lì, in un attimo, dentro/attraverso una canzone, mentre i suoni,
la voce di Teresa e gli sguardi di Winter si perdono e si confondono. [...]
Tutto il film è costruito sull'assenza. Sull'assenza di Friedrich,
su quella del suono nelle immagini da lui girate. E sul suono, il
lavoro di Phillip, in un vortice metaforico/teorico pazzesco: musicare
immagini girate "mute" con una vecchia cinepresa degli anni
Venti. Phillip non si perde nel pasticcio teorico del suo amico regista
e vagabonda per la città alla ricerca dei rumori "assenti"
nelle immagini registrate da Friedrich. Il
quale gira immagini mute con l'aiuto di un bambino muto. Fino a che
Phillip inciderà un silenzioso "suono dell'assenza di Friedrich",
quasi a spezzare il vizioso circolo in cui si stava cacciando. «Io
ascolto senza guardare e così vedo» scrive Pessoa e Wenders aggiunge:
«Lo scopo di questo film è stato quello di dimostrare che i suoni
aiutano a vedere le cose in modo diverso». E Phillip ci mostra,
con l'aiuto dei bambini, quello che il suono può farci vedere attraverso
l'immaginazione. Nostalgia di immagini che raccontavano più di quello
che mostravano, di un cinema capace di andare oltre la "visione".
Ma anche riflessione sulla pratica cinematografica dei nostri tempi.
Ancora Wenders: «Oggi il suono ha un peso che non aveva in passato.
Attualmente qualsiasi film che abbia bisogno di una post-produzione
in stereo impegna diversi mesi perché il lavoro sul suono sia completato.
Quindici o venti anni fa erano sufficienti quattro mesi per il montaggio
e un paio di settimane per il sonoro; oggi, al contrario, il montaggio
si effettua in un paio di settimane e il sonoro richiede mesi e mesi
di lavoro...».
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In
Lisbon Story
conta anzitutto la colonna sonora e musicale. Diciamo subito che, affidata
al quintetto dei Madredeus, la musica nel film e sul film è una componente
importante del piccolo fascino. Fin troppo, direi. Non soltanto attraverso
Teresa Salgueiro, la giovane cantante del gruppo (voce purissirna,
luminosa, bellezza bruna), Wenders ha insinuato una delicata dose di
"romance" nella storia, ma, a scapito del ritmo narrativo, s'è arrischiato
a mettere in fila due esecuzioni. I Madredeus fanno una musica
inconfondibilmente portoghese, ma non triste, con poca "saudade", solare
più che notturna La colonna sonora? Esistono almeno due precedenti
illustri di film, entrambi thriller, che hanno al centro la figura di un
tecnico del suono (un affascinante Coppola:
La conversazione
- 1974, e un buon De Palma: Blow Out
- 1981), ma, a memoria nostra, è la prima volta che un fonico è
protagonista di un film. Giacché i riferimenti a un capolavoro di Buster
Keaton (The Cameramen,
1928) sono espliciti anche con un divertito omaggio finale,
Lisbon Story
poteva intitolarsi "The Soundman".
Più che una storia, c'è una situazione. Chiamato a Lisbona dall'amico
Friedrich che, nel soprassalto romantico di ripartire da zero, vi
sta girando un documentario muto e in bianconero, il fonico Filippo
Inverno, pardon Philip Winter, arriva sulle rive del Tago, ma trova
una casa vuota l'amico Fritz s'è dileguato. Rimangono soltanto le
pizze del materiale girato e al perplesso Philip non rimane che andarsene
in giro per Lisbona, antica e nuova, a registrare suoni, fare incontri
ascoltare la musica dei Madredeus e innamorarsi della loro cantante.
Più pretestuoso che allarmante, un esile filo di "suspence"
tiene sulla corda per novanta minuti lo spettatore fino all'apparizione
del regista scomparso che da luogo a una breve baruffa verbale di
taglio ontologico sul cinema e sul suo futuro, e all'ilare finale.
Lo dice lo stesso Wenders, e non si può non essere d'accordo:
Lisbon Story
è il film più divertente che abbia fatto: semplice diretto, leggero e
decontratto. Rispetto ai suoi ultimi film cosi gonfi e ambiziosi un po'
ferruginosi è come se Wenders -cinquant'anni - fosse tornato indietro,
alle sue origini. Lo si vede anche dallo spazio concesso ai bambini dalla
brezza di giuoco divertito che lo attraversa, non senza tratti di
autoironia. O ha soltanto cambiando direzione?
Come
Nella città bianca
(1983) dello svizzero Tanner, il suo è film su Lisbona con un largo
margine d'improvvisazione: il basso costo concede una maggiore libertà di
manovra. E' un film sul cinema e sul centenario del cinema attraverso il
filtro della cultura portoghese, quella di ieri (l'omaggio a Fernando
Pessoa «Nella piena luce del giorno/anche i suoi splendono») e
quella di oggi con monologo di Manoel de Oliveira, classe 1908, patriarca
sempreverde del cinema lusitano, che si concede il vezzo di una
saltellante uscita charlottiana.
Lisbon Story
è pure una riflessione teorica sul cinema, sul rapporto tra immagine e
suono («...l'illusione
che i tuoi microfoni potessero strappare le mie immagini alle loro
tenebre...»),
tra pellicola e video, tra verità e menzogna, sull'opposizione -che da
sempre ossessiona Wenders- tra cinema americano e cinema europeo, tra un
cinema delle storie e un cinema dello sguardo: il dominio delle storie
soffoca il racconto delle cose, ma senza storie lo sguardo s'inaridisce... |