Dopo
più di 60 anni dal più grande e sistematico genocidio compiuto nell'età
moderna, con sistemi industriali ed economia di scala, è difficile dire
qualcosa di nuovo sull'Olocausto. Lo avevamo notato con
Il falsario,
bel noir ambientato in un campo di concentramento, e in fondo ce lo aveva
insegnato già Primo Levi con
Se questo è un uomo: per entrare nelle menti
e nella pancia delle persone serve una storia, meglio se di genere, pur
raccontando vicende vere e accadute. E così Mark Herman ha raccolto la
lezione di questo rinnovamento, di fatto attuatosi con il
Train de vie di
Radu Milheanu a cui seguì
La vita è bella
di Benigni, e ha portato sullo schermo il lager come non l'avevamo mai
visto. Ad altezza di bambino - e infatti non vediamo tetti e ciminiere, ma
solo fumo da lontano e terra e uniformi da vicino - quella del figlio del
comandante tedesco che sovrintende alla struttura di sterminio e del
piccolo di otto anni con cui fa amicizia, al di là di una rete
elettrificata e del filo spinato. Diventano amici e la tragedia più grande
della Storia trova una dolcezza inenarrabile nel loro giocare a dama, nel
sorridere del bimbo tedesco ingenuo che approfitta del fatto che il
compagno di giochi non può manovrare le pedine per tentare di ingannarlo.
Si sorride con il cuore stretto, perché c'è troppo peso in quegli occhi
innocenti. Asa Butterfield cerca risposte sul perché, nella fattoria
vicina alla sua nuova casa, tutti portino questo pigiama a righe così poco
elegante.
Zac Mattoon O'Brien ritrova la gioia del gioco, ma uno schiaffo e il
"tradimento" (naturale) dell'amico di fronte all'adulto lo riprecipita nel
baratro. Il bambino con il pigiama a righe è un gioiello così come lo era
il bestseller (in Italia edito da Fabbri) di John Boyne, qui anche
sceneggiatore, da cui è tratto. Lo stile, visivo e narrativo, è quello
della fiaba d'infanzia d'avventura, la ricerca del piccolo antieroe del
mistero da esplorare e risolvere e tutto è vissuto tra la sua innocenza e
la colpa che macchia gli adulti, dal padre militare alla madre più ignava
che ignara (una splendida e bravissima Vera Farmiga). Delicatezza e
sensibilità lo rendono visibile a tutti - con una scelta di grande potenza
espressiva le violenze rimangono fuori campo, la macchina da presa si
ferma un muro, una porta prima - e non indulgono, però, a una catarsi
consolatoria. Con l'onestà intellettuale che solo Walt Disney aveva (chi
di noi ancora non piange per la mamma di Bambi?) questa favola nera tira
le fila della Storia e delle storie, lasciando solo con la rabbia e
l'impotenza lo spettatore, di fronte all'ultima immagine dell'ultima
sequenza. Provate a rialzarvi o a parlare dopo i titoli di coda.
Semplicemente, non ce la farete. Da far vedere ai vostri figli, ogni
Natale. Per non dimenticare. |