da La Repubblica (Paolo D'agostini) |
Da colonna sonora di sentimenti nobilmente dolorosi com'era in La stanza del figlio (chi non ricorda quella scena della famiglia in macchina, quando cantano tutti insieme?) la voce di Caterina Caselli che intona Insieme a te non ci sto più diventa colonna sonora del marciume di Giorgio Pellegrini, il personaggio creato da Massimo Carlotto nel romanzo che da un verso della famosa canzone prende il titolo, e riproposto da Michele Soavi nel film omonimo. Il regista, cultore di un cinema "di genere" e "di paura", ha fatto un ottimo lavoro ma ha in parte rinunciato alle risonanze politiche che qualificano fortemente romanzo e personaggio originale. La discesa all'inferno di Giorgio dalle bombe guerrigliere al Nordest rampante attraverso un'infinità di infamie e tradimenti affonda le sue radici nell'album di famiglia di una generazione che ha percorso due decenni di storia politica italiana. E (anche se sarebbe un arbitrio affermare che Pellegrini è tout court la parte per il tutto) su quella storia, la storia dell'estremismo di sinistra, il romanziere esprimeva - da dentro - un giudizio severo, di pochezza mista a vanità. Il film costituisce una prova che laurea Alessio Boni, impegnato a fondo nello scolpire un'anima nera senza se e senza ma. Lo accompagnano, tutti all'altezza, gli altri ruoli collaterali a partire da Isabella Ferrari. Michele Placido memorabile agente della Digos corrotto. Di più: un abisso di corruzione. |
da Film Tv (Raffaella Giancristofaro) |
Giorgio Pellegrini, nome di battaglia "Che Guevara", rientra in Italia dopo la latitanza sudamericana da extraparlamentare di sinistra. Baratta il suo reintegro con informazioni sui suoi compagni di militanza a un dirigente senza scrupoli della Digos, che lo ricatta coinvolgendolo in crimini e omicidi a sangue freddo. Nella corsa ad arricchirsi, niente e nessuno viene risparmiato. Anzi, Giorgio, tormentato dal suo passato barricadero (associato a un uso insistito della title track) si compiace di essere così carogna. Dal bel romanzo omonimo di Massimo Carlotto, una vivida ricostruzione delle trame invisibili che rendono opulento il Nordest tra criminalità e politica. Del resto, che la narrativa di genere abbia soppiantato il giornalismo d'inchiesta nel nostro Paese non è una novità. La polizia incrimina, la legge assolve, diceva un poliziottesco 70. Oggi quella malavita di rapine e sequestri si è ripulita, globalizzata, ma il senso è lo stesso. Non a caso il film si apre con la lettura degli articoli del codice penale sulla riabilitazione, vuote parole davanti alla concreta possibilità di riciclarsi l'immagine. Il protagonista è la summa di tanti rottami ideologici che oggi sguazzano pasciuti, paradigmi di un'ideologia della prevaricazione e dell'accumulazione spregiudicata e applaudita. Placido, un bastardissimo poliziotto che sarebbe piaciuto a Di Leo, Ferrari una dolente femme fatale di provincia. Soavi si concede momenti di virtuosismo e di horror (agli antipodi della compostezza del Giordana di La meglio gioventù, che utilizzava meglio anche Boni, qui in lotta con la voce over perenne), in cerca di una spettacolarizzazione frenata da una sceneggiatura troppo preoccupata della chiarezza. Grande finale funereo con il trionfo del Male che si propaga come un virus. |
da Il Corriere della Sera (Paolo Mereghetti) |
Se il mondo è brutto e abitato da persone "brutte" (moralmente s’intende) bisogna per forza rappresentarlo anche con personaggi brutti? La risposta di Michele Soavi è affermativa e il suo film che racconta il controverso ritorno in patria di un ex terrorista cinico e disincantato, in cerca con ogni mezzo (meglio se illegale) di un qualche riscatto sociale, sembra un campionario di mostruosità umane. Forse è vero che il mondo in cui viviamo non è né bello né piacevole e che la nostra società si regge su complicità, truffe, inganni e omertà (per non dire di peggio) ma è il tono eccessivamente farsesco (vedi il personaggio di Placido, poliziotto corrotto e ricattatore) o gratuitamente cinico (il protagonista Alessio Boni, ma anche la "povera" Isabella Ferrari, le cui qualità sembrano sempre in attesa di un ruolo – e di un regista – che sappiano valorizzarle) a rendere il film, agli occhi di chi scrive, falso e senza anima. Soavi rivendica una scelta di genere, fatta di stereotipi e meccanismi rodati, ma sembra fermo al peggio dei nostri anni Settanta, di cui recupera la violenza dei comportamenti ma non l’intreccio tra moralità (o amoralità) e contesto sociale. Scopiazza a destra e a sinistra, chiede ai suoi attori espressività esagerate, abbonda in tette e culi e non si risparmia nemmeno qualche sbandata splatter ma finisce per costruire un personaggio senza anima e un film senza stile. |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2006