Théo Angelopoulos, lo sguardo (e)statico

27 aprile 1935 – 24 gennaio 2012

   Quanto cinema (quanti film) di un regista bisogna aver visto per poter dire di conoscerlo, di averne colto la sua linea d’autore, la sua poetica? Il caso di Théo Angelopoulos è certo anomalo. È bastato ad una generazione aver assistito a La recita (1975) per sentirsi subito in sintonia con un mondo ed un modo narrativo ed estetico unici e irripetibili.
Poco conta che quel maxi-film (quasi quattro ore) facesse parte (con I giorni del ’36 – 1972 - e I cacciatori - 1977) di una trilogia che affrontava un percorso storico articolato e coeso (la storia greca dagli anni trenta ai settanta) e che ad essa siano seguiti altri mirabili monumenti cinematografici, sempre sorretti dal respiro del mito: dalla forza evocativa di Alessandro il Grande (1980) alla suggestione poetica di
Paesaggio nella nebbia (1988, chiusura di una seconda trilogia, “del viaggio”), dal turgido sguardo sulla tragedia dei Balcani (Lo sguardo di Ulisse, 1995) all’affascinante impasto di ideologia e metafora di L’eternità e un giorno (1998); fino alla nuova trilogia incompiuta su un’epopea greca di inizio secolo, partita con la sinuosa orchestrazione figurativa di La sorgente del fiume (2004) ed interrottasi con l’intreccio metalinguistico di una nostalgica memoria in La polvere del tempo (2009).
Théo Angelopoulos resta per molti di noi essenzialmente La recita (O thiassos): è quel sipario rosso che apre la scena su una complessità drammaturgia familiare e storica che amalgama il mito degli Atridi con il decennio greco che va dal ‘39 al ‘52, è il trasfigurare il racconto fondendo pregnanza simbolica ed estraniazione brechtiana, è quello spiazzante guardare in macchina, quel confessarsi alla macchina da presa con cui i personaggi catturano e coinvolgono lo spettatore; sono quegli interminabili, lenti piani sequenza che dilatano il tempo ed esaltano il processo introspettivo. Un’estasi cinematografica che ci accompagna, oggi come allora.

ezio leoni - ottobre 2012

   

La recita (O thiassos)
Théo Angelopoulos - Grecia 1975 3h 50’
versione originale sottotitolata

  Le peregrinazioni di un gruppo di attori girovaghi (i cui membri hanno i nomi dei personaggi del mito degli Atridi: Elettra, Egisto, Pilade, Oreste...) che mettendo in scena il dramma ottocentesco di Peresiadis Golfo la pastorella si intrecciano - senza nessun tipo di ordine cronologico - con la storia della Grecia dal 1939 al 1952: la dittatura del generale Matexas, l’attacco italiano e l’occupazione nazista, la violenza subita da Elettra, la vendetta di Oreste che uccide la madre e il suo amante, la resistenza che prosegue anche dopo la fine della guerra contro le forze d’occupazione angloamericane, il matrimonio della sorella di Elettra con un soldato statunitense, la vittoria della destra e la restaurazione del generale Papagos.
Punto di arrivo del rinnovamento formale degli anni Sessanta e Settanta, il film di Angelopulos riesce a intrecciare perfettamente riflessione politica e ricerca formale raccontando una storia che si svolge a tre livelli — quello del teatro, quello della vita privata e quello della politica — e che attraversa quattordici anni di storia nazionale con una libertà d’invenzione e un’originalità di racconto che stupisce ancora (il film si apre e si chiude sulla stessa immagine di un vecchio che suona la fisarmonica con una voce off che ambienta la storia all’inizio nel 1952 e alla fine nel 1939). L’intreccio tra i tre livelli di significazione è stretto e impercettibile, non esistono flashback e i passaggi temporali sono realizzati con carrellate che ci fanno viaggiare nel tempo così che da una parte dello schermo «escono» i personaggi di un periodo storico e dall’altro «entrano» quelli di un altro senza nessun bisogno di rispettare la cronologia. Il punto di vista della vicenda, infatti, non è quello della narrazione ma quello della memoria collettiva che non distingue nettamente le collocazioni temporali. Gli attori che parlano direttamente in macchina e la collocazione della macchina da presa di fronte alla scena creano quel distacco che Brecht definì «straniamento» capace di fornire allo spettatore la consapevolezza di essere di fronte a una rappresentazione. Uno dei capolavori del cinema con temporaneo che assieme a l giorni del ‘36 (1972) e I cacciatori (1977) forma la trilogia di Angelopulos sulla storia contemporanea della Grecia.

Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti

   

Paesaggio nella nebbia (Topoi stin omihli)
Théo Angelopoulos - Grecia 1988 2h 5’

Leone d'argento a VENEZIA

  ...Scritto da Anghelopoulos con l'aiuto, fra l'altro, di Tonino Guerra, il film è la storia di una iniziazione, lunga, lenta, dai solenni ed ampi movimenti di macchina, dai paesaggi che si trasformano magicamente sotto gli occhi dei due ragazzini, ed ha una “tenuta” formidabile. Poiché splendide sono le invenzioni visive in cui sono frequenti i riferimenti al precedente cinema di Anghelopoulos, con addirittura delle citazioni. E il cinema si fa strumento della metafora finale: dalla spazzatura i due piccoli hanno raccolto uno spezzone di pellicola illeggibile, annebbiata. “Se voi guardate attentamente - dice loro un giovane attore che li aiuta - dietro la nebbia potrete vedere un albero”. Quando i ragazzi approdano sulla sponda del paese straniero, la nebbia che avvolge il paesaggio si dirada ed appare un grande albero, maestoso, solitario, drammatico. Poiché la fiaba non è consolatoria, l'apprendistato per la vita è duro (in tutto il film non c'è un raggio di sole, un cielo sereno); eppure occorre credere ai sogni, andare avanti. Il film conclude con Voula che, per farsi coraggio, prega: “All'inizio c'erano solo le tenebre”, e con Alexander che, prendendole la mano, continua: “Poi la luce si separò dalle tenebre”...

Ermanno Comuzio – Cineforum

   

Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odyssea)
Théo Angelopoulos - Grecia/Francia/Germania/Italia 1995 2h 55’

Gran Premio della Giuria a CANNES

  A. (Harvey Keitel), regista greco, torna in patria per la prima di un suo film e per cercare tre bobine di un negativo (Le tessitrici) impressionato nel 1905 dai fratelli Maniakas, pionieri del cinema, girovaghi nei Balcani. Il suo viaggio di ricerca attraversa Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e approda alla straziata Sarajevo dove l'attende un anziano cinetecario (Erland Josephson) con il mitico reperto. (La parte era destinata a Gian Maria Volonté, morto dopo pochi giorni di riprese.) Capolavoro imperfetto? Nella malinconica liturgia solenne del suo cinema di riflessione sulla Storia le pagine opache non mancano, ma le pagine riuscite sono di alto livello, e più numerose. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markartis, il 10° film di Anghelopulos conferma che questo regista isolato, peculiare e inimitabile è uno dei pochi cui si può attribuire la qualifica di “europeo”. Non c'è ritorno a Itaca per il suo Ulisse: l'epica sfocia in tragedia. Lo sguardo innocente dei pionieri del cinema è perduto per sempre.

Il Morandini - Dizionario dei Film

  Moderna odissea di un intellettuale alla ricerca delle proprie radici professionali e storiche, il film di Anghelopulos (sceneggiato insieme a Tonino Guerra) è «il viaggio di una coscienza smarrita che incontra coscienze altrettanto smarrite». inguale e frammentario, il film ha momenti di grande commozione (il trasporto via fiume di un'immensa statua di Lenin osservata lungo le rive da una folla silenziosa di ex «sudditi» o il massacro della famiglia del conservatore della cineteca, fatta sentire ma non vedere, per sottolineare ancora di più la «cecità» del mondo di fronte a quella guerra), ma anche troppe concessioni a un’idea di cinema autoriale che lo porta a ricostruire tutto o quasi e che finisce per mostrarci una Sarajevo «falsificata» ripresa un po’ a Mostar e a Vukovar e un po’ rifatta in studio (così come l'idea di far interpretare dalla Morgenstern tutte le donne che A. incontra sulla sua strada non è particolarmente originale). Ma l'idea di chiudere il film su una non-fine è comunque un atto di coraggio. Gran premio della giuria a Cannes, accolto dal regista con la smorfia di chi si aspettava la Palma d’oro. Il ruolo del conservatore della cineteca era stato pensato per Gian Maria Volonté, morto dopo troppo pochi giorni di riprese perché potesse essere presente nel film, che comunque è dedicato alla sua memoria.

Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti

   

L'eternità e un giorno (Mia eoniotita ke mia mera)
Théo Angelopoulos - Grecia/Italia 1998 2h 10’

Palma d'oro a CANNES

  Un famoso scrittore lascia la sua casa di Salonicco per recarsi in auto all'ospedale da dove forse non uscirà più. L'incontro con un ragazzino albanese, lavavetri clandestino, lo toglie per qualche giorno dalla solitudine; il ricordo della moglie morta lo riporta a un passato troppo dedicato a sé stesso e al lavoro, troppo poco al suo prossimo. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markaris, con la fotografia dell'abituale Yorgos Arvanitis e di Andreas Sinanos, l'11° film di Anghelopulos - Palma d'oro al 51° Festival di Cannes 1998: un altro premio in ritardo - è un esercizio di maestria poetica che scade nel poeticismo per accumulo di metafore, temi, suggestioni. Troppa letteratura: la figura incongrua del Poeta ottocentesco che compera le parole; il susseguirsi di finali nell'ultima parte fino alla scelta di quello più ideologico. Il che non impedisce allo spettatore capace di attenzione, ascolto e abbandono a ritmi inconsueti di ammirarne l'alto splendore figurativo e alcune sequenze memorabili come quella del rito funebre per il piccolo Selim.

Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti

   

La sorgente del fiume (To Livadi Pou Dakrizi)
Theo Angelopoulos - Italia/Francia/GB  2004 2h 51’

  Momenti di bellezza meravigliosa, ne La sorgente del fiume di Theo Angelopoulos: una distesa di lenzuola bianche messe ad asciugare palpitanti nel vento, il ricordo "giorni del '36, notti oscure", la musica di Amapola, un funerale sull'acqua con bandiere nere che procede solenne e lento su una zattera, le urla atroci della madre sul cadavere del figlio, il dolore civile ("Quello che temevamo è accaduto: la democrazia si è suicidata"), e la pioggia che non smette mai di cadere trasformando le strade in rivoli di fango. Nessun regista al mondo fa un cinema più struggente e perfetto, più realista e lirico; nessun autore persegue progetti di tale grandezza. La sorgente del fiume è il primo film di una trilogia che vuol narrare gli eventi più importanti che hanno segnato la Grecia nel Novecento, attraverso la vita di due coniugi costretti alla separazione: l'esilio, la lontananza, l'errare, il disfarsi delle ideologie, la morte, le prove della Storia. Angelopoulos certo non racconta la Storia in vignette e aneddoti cronologicamente ordinati, completati da date o scritte alla maniera televisiva. Come accade nella memoria di ciascuno di noi, gli bastano allusioni, note musicali, simboli, immagini evocative, attimi significativi...

Lietta Tornabuoni - La Stampa

 cinema invisibile LUX ottobre-dicembre 2012