Nikita
Mikhalkov, prima come attore e poi come regista ha percorso da anni, e non
solo nel proprio paese, un felice itinerario di solide ricerche narrative
e stilistiche. All'insegna di un cinema di vivida forza espressiva.
Basterebbe ricordare, alla fine degli Ottanta,
Oci Ciornye,
co-prodotto con l'ltalia, agli inizi dei Novanta
Urga,
Leone d'oro a Venezia, quindi, tre anni dopo, quel Sole ingannatore subito
premiato a un festival di Cannes e con un Oscar.
Adesso, con finissime intuizioni psicologiche, approfondisce un tema,
quello dell'amministrazione popolare della giustizia, già affrontato nei
Cinquanta dal cinema americano con La parola ai giurati di Sidney Lumet.
Lo schema che segue è simile (anche perché quel film era tratto da un
testo teatrale da lui stesso, a suo tempo, portato sulle scene di Mosca),
ma il clima, le motivazioni sociali, i tratti psicologici di tutti i
personaggi sono russi fino in fondo, direttamente legati alla Russia di
oggi e ai suoi problemi problemi non facili.
Anche qui 12 giurati che debbono giudicare un ragazzo accusato di aver
ucciso il padre adottivo. Il ragazzo, però, è ceceno, i giurati sono tutti
moscoviti e sulle prime sarebbero pronti a condannarlo senza esitare
all'ergastolo. Poi, però, uno di loro chiede almeno di discutere (nel film
di Lumet era il personaggio interpretato da Henry Fonda) e a poco a poco
le posizioni mutano, perfino quelle di un tassista che più degli altri,
per nazionalismo esasperato, era pronto a vedere in ogni ceceno un nemico
da combattere.
Mikhalkov, che si è riscritto anche il testo, ha dosato l'azione quasi
sempre al chiuso di una stanza, prima in modo da dimostrare che la maggior
parte delle opinioni con cui quei giurati si esprimono sono dettate da
problemi personali pronti, ad ogni svolta, a influenzarli. In seguito,
chiavi quasi di psicodramma, sottolineando le progressive modifiche dei
singoli atteggiamenti, anche in contrasti vicini spesso alla zuffa. Fino,
dopo molte tensioni, a ribaltare le conclusioni iniziali.
In cifre in cui, pur nella staticità delle situazioni, il dinamismo dei
ritmi viene via via aumentando, con il sussidio di immagini,
intenzionalmente quasi solo cronistiche, che però si valgono delle più
studiate tecniche del cinema - primissimi piani, campi lunghi, piani
sequenza - ritmate in modo quasi angosciante e riuscendo a trarre da
ciascun carattere, sempre fortemente segnato, delle occasioni addirittura
di suspense. Con la collaborazione di attori (e tra questi, ancora una
volta, lo stesso Mikhalkov), che si propongono soprattutto come una vera e
propria galleria di facce. Lacerando lo schermo. |
La
camera di consiglio, allestita nella tetra palestra di una scuola, è
appena cominciata; ma il verdetto sembra già emesso. Il giovane ceceno,
accusato di aver ucciso il patrigno (già ufficiale dell'esercito russo),
deve essere condannato. Basta, però, che un uomo di buona volontà si
opponga al giudizio sommario perché una più incerta verità possa
affiorare. Libero remake del vecchio La
parola ai giurati (serrata opera prima di
Lumet),
12
è un racconto politico. Sotto la prima pelle da thriller processuale, il
regista (e protagonista) parla della Russia di oggi e delle varie
contraddizioni (la Cecenia appunto) che la segnano. Gran navigatore negli
affanni del suo tempo (oggi è il regista preferito da Putin) Michalkov
eccede nel finale metaforico. Ma l'impianto è solido e struggente, come il
suono di una pianola meccanica. |