Magia!
Richiamando Bagdad Café, un ormai vecchio film di Percy Adlon
del 1987,
In-Finitum,
a
Palazzo Fortuny
di Venezia fino al 15 novembre prossimo, è una ….. magia! Quando
l’arte diventa tutt’uno con lo spazio, quando la
Storia
e il “prodotto” artistico dell’uomo fanno sì che si ri-torni ad andare
d’accordo con la vita, non può essere altro che magia...
Il perdersi dello spettatore nell’esposizione veneziana, l’essere
“risucchiato” fisicamente, emotivamente, psichicamente (ricordate
Poltergeist?) da regali “gatti” egiziani che conversano con
loro simili anni ’50, da grandi “biglie” ferite e squarciate (Concetto
Spaziale Natura di Lucio Fontana) che
si contrappongono all’installazione
Sea of Time di Tatsuo Miyajima (2009)
dove numeri, numeri e numeri appaiono e scompaiono in continue e
fluide micro-onde, da capolavori come
Fine di Dio (ancora di Fontana) che
interagisce in un silenzioso colloquio con due opere di Ad Reinhardt
dove il nero è assoluto protagonista, è più di un’occasione rara: è
un’esperienza che accresce e nutre, riappacificando.
Corrono in “aiuto” a tutto ciò, amplificando le
sensazioni, sollecitando tutti i cinque sensi, uno spazio spesso in
penombra, dove la scoperta delle immagini avviene poco a poco,
lentamente fin quasi a far percepire il dilatarsi della propria
pupilla per adattarsi alla situazione e la ricerca, fondamentalmente
infruttuosa, di didascalie che aprirebbero alla conoscenza
dell’oggetto che si ha di fronte (per comprendere cosa effettivamente
si sta contemplando è necessario utilizzare una brochure che viene
consegnata all’inizio del percorso).
Non è possibile, in aggiunta, non soffermarsi sull’aspetto ludico, su
quello avventuroso, sul fascino e la paura della “scoperta” che
l’esposizione permette di vivere: dal Piano terra, che improvvisamente
si apre su piccoli spazi aperti dove giorno dopo giorno la natura si
impossessa dell’arte (Erik Dhont Form
Meets Nature) su su fino al
Sottotetto, è tutto un susseguirsi di emozioni.
Già a partire dal titolo della Mostra,
In-Finitum,
il sipario si spalanca su concetti (come l’ “eternità”) da cui tutti,
fin da bambini, siamo attratti, inquietati, incuriositi, spaventati.
Un incredibile “fil rouge”, costituito non solo
di contorni non definiti, di particolari non dettagliati, di colori
sfumati, di elementi compositivi e formali che potrebbero susseguirsi
continuamente, accomuna tutte le opere di epoche tra loro
lontanissime, di materiali diversissimi, di “natura” opposta.
Che dire delle piccole opere “non-finite” di Mariano Fortuny y Marsal,
nelle quali sicure pennellate “informali” ad una più attenta
osservazione divengono uomini, galli, oggetti, che vivono nello stesso
ambiente con ipnotiche video-installazioni dove figure maschili e
femminili sono radiografate per essere ricondotte a nere silhouette? O
ancora, guadagnando lo spazio dell’Attico, che dire di ambientazioni
labirintiche dove spazi “leggeri, ma claustrofobici” portano il
viaggiatore di fronte a tesori quali
La Vie sans l’homme di Jean Dubuffet
?
Un’esposizione insomma che, lo ribadiamo, rincuora, accresce, infonde
fiducia, riportandoci a credere in un “uomo” in grado di produrre “il
Bello”.
Considerazioni analoghe sono in parte
possibili relativamente all’Arsenale,
ormai consolidata sede espositiva della Biennale.
Anche
in
Fare mondi
il “contenitore” e il “contenuto” si amalgamano e si compenetrano in
maniera sorprendente; in più lo spettatore alterna l’ ”entrare” e l’
”uscire”, l’ ”esplodere” e l’ ”implodere” grazie agli edifici e agli
spazi che l’intero complesso dell’Arsenale offre: dalle Corderie alle
Gaggiandre, dalle Tese al Giardino delle Vergini.
E la “sorpresa” è, come sempre per la
Biennale, la vera protagonista della visita: il fruire dell’opera
d’arte, il “sentirla” addosso come una seconda pelle, l’entrare in
sintonia, o meno, con essa è il caleiodoscopio di sensazioni che
Esposizioni simili generano.
Passeggiare per il Giardino delle Vergini tra “verzura” che diventa
opera d’arte, tra piccoli edifici fatiscenti che diventano scrigni dal
contenuto prezioso, tra monumentali e storiche sculture (l'omaggio a
Pietro Cascella) è… letteralmente salvifico.
Ma non è proprio l’Arte l’unica possibilità per salvarsi?
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