Nell’editoriale
di FilmTv del 13 maggio 2007 Pier Maria Bocchi decretava
implacabilmente la morte del cinema Orientale: “Non serve mettersi in
lutto. Era prevedibile, i segni c’erano già da tempo. Quelli che non se ne
sono accorti, o che si ostinano a pensare il contrario, sono un po’ da
compatire. Né serve d'altronde celebrare alcun funerale, perché la colpa
della morte del cinema orientale (o asiatico, o dell'Estremo Oriente, o
quel che volete) è soltanto del cinema orientale stesso e dei suoi
integralisti. [...] Non è una questione di singoli film: i quali, buoni o
cattivi, ci sono sempre, come d'altronde in Islanda o in Cile. I bei film
orientali sono sempre esistiti ed esistono tuttora. [...] Quello che prima
esisteva "in più" era un pensiero, un'idea capace di trasformarsi in
visione, uno stile che dal singolo diventava universale. Ecco, questo
adesso non c'è più, morto e sepolto, amen. [...] Non c'è più niente, là
dove eravamo soliti andare a pescare per sentirci vivi. Non c'è uno
sguardo nuovo, non ci sono correnti né meccanismi degni d'essere
organizzati in strutture portanti. Chi si affanna a scoprire un paese
finora disatteso, fa il gioco del padrone, e non se ne accorge. [...] Il
cinema d'Oriente non è più fondativo; se lo sarà ancora, è un
interrogativo a cui non si può dare risposta.”
A un anno di distanza, e soprattutto, dopo essere stati a
Udine
per la X
edizione del Far East Film
Festival giunge quasi scontato
sottoporre a qualche considerazione l’interrogativo al quale non si poteva
dare risposta. Del resto il pensiero di Bocchi non poteva né lasciare
indifferenti data la sua competenza nell’ambito specifico a cui fa
riferimento, né non essere messa in discussione data la sua
incontrovertibile definitezza e risolutezza di assunzione.
Dieci anni per un festival segnano un primo importante traguardo, e di
questo gli organizzatori - visti i risultati e la costante crescita
avvenuta - ne sono decisamente a conoscenza. Era perciò intimamente
necessario che questa edizione celebrasse un assodato successo e
rilanciasse ancora una volta, verso il futuro, la stessa viva “capacità di
provare (e provocare) entusiasmo e stupore, quell’entusiasmo e quello
stupore che chiunque ami il cinema, la creatività e la libertà del cinema,
non dovrebbe perdere mai” che sono stati all’origine di questa
manifestazione e dello stesso cinema dell’Estremo Oriente, che del resto è
il vero protagonista e creatore di questi sentimenti da più di dieci anni
a questa parte. Un cinema che non manca di ricevere consensi e
apprezzamenti, di essere scoperto da sempre nuovi spettatori - sebbene sia
stato un processo avvenuto piuttosto lentamente - affascinati da temi,
narrazioni, estetiche, personaggi, generi, spesso radicalmente diversi e
non raramente difficilmente intelligibili. Certo è che questo cinema, per
quanto riesca continuamente a esprimere un entusiasmo giovanile, è giunto
a una maturazione tale per cui diventa ormai necessario - per lo
spettatore ma anche per l’autore - cambiare sguardo, punti di vista e
aspettative. Qualcosa sta decisamente cambiando, è vero. Ed è bene così,
prima di percepire il disgusto dell’odore rancido di qualcosa che è ormai
alternato per sempre dalla noia e dalla ripetizione.
Il Far East,
nella sua variopinta selezione di titoli, è un’occasione speciale e unica
per cogliere i mutamenti di un processo in atto, per cui, a tutti gli
effetti, quell’ondata creativa a cui ha partecipato anche il cinema più
commerciale e popolare asiatico nell’ultimo decennio, sembra essersi
fissata, o meglio, attenuata, in favore di qualche titolo che riesce a
emergere per proprie peculiarità. E’ molto probabile che parte di queste
considerazioni siano frutto di una certa abitudine a una visione
incessante verso un mondo che rimane però - ancora una volta, questo non è
proprio possibile dimenticarlo o escluderlo - estremamente ancorato a una
tradizione e un modo di concepire la vita, le emozioni, i sogni, del tutto
estranei all’assuefazione, e in ogni caso capace di oltrepassare,
attraverso la potenza dello sguardo, le limitazioni della maniera,
dell’abuso e della consuetudine. Pretendere un perdurare eterno della
novità, della sorpresa, di spinte rivoluzionarie capaci di divenire
universali, è decisamente un desiderio sotto un certo punto di vista
condivisibile, ma a suo modo utopistico. Ben altra cosa è invece poter
assistere dal vivo allo spogliamento della vecchia esuvia da parte di un
organismo che manifesta visibilmente la passione e la voglia di
(di)mostrarsi e mettersi in discussione. Il vero dramma dunque, sta nella
morte della curiosità. Quella curiosità essenziale a scorgere ancora
immagini capaci di racchiudere quel germe dai risvolti imprevedibili,
capace anche - perché no - di organizzarsi in futuro in struttura
portante.
C’è però da chiedersi perché poi solo fenomeni di tale portata
meriterebbero di essere considerati. O piuttosto, perché solo i film
ascrivibili a un dato fenomeno dovrebbero godere di importanza superiore.
Com’era naturale aspettarsi, la più o meno vasta produzione
cinematografica dell’Estremo Oriente è fatta di alti e bassi, come del
resto è in ogni parte del mondo, ma più che altrove, è possibile notare
una tendenziale attitudine a non scadere mai nell’inutilità, nella
semplificazione totale e isolante, vuoi per la peculiarità dei generi
portanti, vuoi per l’intrinseca capacità di raccontare e comunicare
attraverso le forme, vuoi per l’originale rispetto per il mito, la storia,
la tradizione e l’infinita rielaborazione che di tutti questi elementi è
possibile trarre.
Ecco dunque che il Far East
offre quell’opportunità altrimenti
impraticabile di osservare fenomeni che, da soli, meritano il desiderio di
conoscenza. Un desiderio che, per quanto entrato, a diritto, a far parte
di uno schema, appartiene ancora a una alterità, senz’altro lontana,
quanto oltre un limite formalmente inviolabile, e pertanto destinato
all’incanto e al riguardo dell’esperienza.
Stupisce
vedere, ad esempio, il film campione di incassi in Thailandia,
Love of Siam,
una commedia sentimentale per adolescenti, diretta da Chookiat Sakweerakul,
giovane e abile regista e sceneggiatore già famoso per i thriller-horror
13-Beloved e Body
(anch’esso
presente al festival). E’ più che indicativo e sconfortante mettere a
confronto questo dato con il nostro botteghino nazionale (Neri Parenti,
Pieraccioni...), dove domina la più assoluta e squallida vacuità di
intenti e più di tutto non si avvisa nulla che possa avvicinarsi a
qualunque idea di cinema. Love of Siam intreccia con garbo e
discrezione temi come il dramma familiare, l’omosessualità come stadio di
crescita e l’amicizia, mantenendo “una tranquilla atmosfera di minimalismo
emotivo: ogni emozione è espressa nei limiti di una discrezione
trattenuta, che conserva al film la verosimiglianza della vita quotidiana,
come se queste vicende potessero accadere a qualsiasi famiglia della
classe media thailandese”.
È
sempre una scoperta poi l’appuntamento con i film pink, divenuti
soprattutto - al di là della matrice porno soft - un fertile territorio di
sperimentazioni e idee, generate dalle limitatissime disponibilità di
budget. Presente nella selezione quest’anno
Love Master di Komino Masashi, è
un insolito pink dalla prospettiva femminista: “Invece di un altro ragazzo
eccitato che soddisfa egoisticamente i propri desideri (vale a dire una
controfigura del pubblico), il protagonista ha dedicato se stesso al
benessere erotico del genere femminile; ed è anche una sorta di cavaliere,
che sa come combattere per il proprio amore”. Ambientato in un
tradizionale quartiere di geisha di Tokyo, il film è il percorso di
crescita emotiva sentimentale sessuale di Kikunosuke, esperto suonatore di
shamisen (un liuto a tre corde) e maestro d’amore per le donne deluse. Ma
l’incontro con una bellissima donna sfalderà ogni certezza e insinuerà un
tormento che condurrà il protagonista a una vera maturazione e alla
scoperta del profondo segreto per soddisfare una donna.
Come
non considerare la presenza monolitica di due autori cult come Johnnie To
e Takashi Miike, capaci ancora una volta di riaffermare l’importanza della
loro arte. Del primo sono stati proiettati
Mad Detective
(già visto in anteprima a Venezia) e
Sparrow. Del secondo,
Crows - Episode 0,
film che racchiude innegabilmente un certo fascino estetico, come spesso
accade per Miike. Tratto da un fumetto di Hiroshi Takahashi, è la storia
di adolescenti incazzati che se le danno di santa ragione, sullo scenario
della High School maschile di Suzuran, autentico campo di battaglia per
gli scontri delle bande di teppisti. Lo stile è proprio quello di Miike,
che ben si adatta all’esaltazione e alla frenesia dei calci e dei pugni
che animano questi giovani sbandati ma ricercatamente “cool”, con abiti
eleganti ma volutamente trasandati,
capelli
acconciati sempre in maniera diversa, atteggiamento da aspiranti gangster,
e una forza incredibile. Il fascino sta proprio qui, nella disinvoltura
dell’azione, nella scarna ossatura dell’intreccio, che altro non è se
non una conquista del potere, un’affermazione della forza e
dell’individualità; e il conseguente rovescio della medaglia. Non c’è
spiegazione o motivazione, solo un’insita orchestrazione del destino che
determina i ruoli dei personaggi. Le botte li rendono vivi, e
probabilmente, meno soli. Perché, in fondo, è la solitudine il peggiore
dei mali, e questi ragazzi, senza gang, non sono nulla. Il combattimento
come forma di aggregazione e comunicazione primaria, primitiva e vitale;
come redenzione per lo sconforto della vita e della propria condizione. E
non ci sarò mai fine a tutto questo - sembra sottolineare più volte Miike
- attraverso una conclusione che è un eterno inizio.
La solitudine e l’universo femminile possono considerarsi due caratteri a
loro modo identificativi dei film in programma in questa edizione del
festival. The Other Half
del cinese Lin Lisheng rappresenta di sicuro
il culmine per quanto riguarda l’attenzione e
la
totale dedizione all’esplorazione della donna. Un film estremamente
contemporaneo, ambientato a Pechino, girato completamente in digitale, “in
parte commedia romantica, in parte satira metropolitana”, incentrato sulla
vita di tre donne, una madre e le due figlie. “Tre donne, tre vite
sessuali, e un bel po’ di dialogo pungente proiettano questa storia
familiare molto oltre la solita, stantia commedia da soap opera che rende
pesanti i comuni tentativi del cinema commerciale cinese di affrontare
questo soggetto“. Un film davvero meraviglioso per la leggerezza con cui
riesce a mettere in scena lo svolgersi della vita, con tutte le
contraddizioni, i dubbi, le aspettative, i sorrisi, la comicità, il
dolore, la bellezza e la malinconia che ne fanno parte, con una
sensibilità e un’introspezione - cosa molto rara - esclusivamente
femminile. “L’altra metà del titolo è il modo in cui la sorella minore
raffigura l’anelito che sta fra una donna e il suo oggetto d’amore: nel
suo modo di vedere le cose, ciascuno ha un’altra metà che gli/le si adatta
perfettamente, come le due metà di una mela, completando la loro
felicità.”
Fine, Totally fine
è il titolo sognante ed emblematico dell’opera indubbiamente più
caratterizzante nel panorama delle visioni di questa decima edizione del
festival. Questo film di Yousuke Fujita è una delicatissima e ispirata
commedia ironica e realistica
sul rapporto di un originale triangolo di personaggi formato da due
fratelli, Teruo e Hisanobu, e una ragazza, Akari, casualmente di passaggio
nella loro esistenza. Teruo è un ragazzo bloccato nello sviluppo, chiuso
in un corpo più grande di lui, ancora un ragazzino appena adolescente,
amante dei giochi buffi e dei film horror, e con il sogno di costruire una
casa di fantasmi in un parco di divertimenti. Suo fratello invece lavora
in ospedale, ma al di là dell’apparente sorriso non sopporta più la sua
vita senza senso.È proprio al lavoro però che un giorno si presenta, col
naso sanguinante e i vestiti strappati, Akari. Ogni frammento di queste
esistenze racchiude una sorta di universo parallelo, umoristico ma
assolutamente profondo. E il luogo ideale di questo incontro è la vecchia
e dimenticata libreria del padre. Un luogo sospeso, dove regna la libertà
creativa del pensiero; oltre la sfera della formalità, è qui che i
personaggi si conosco per ciò che sono e non per ciò che devono essere.
Ogni tensione emotiva è stemperata da situazioni comiche, quasi a fare in
modo che faccia meno male, ma non per questo poi accantonata. Attraverso
la risata, a volte ingenua, inattesa, o surreale (un dito che si spezza
nel premere il pulsante dell’ascensore...) Yousuke Fujita riesce a donare
al suo film una libertà emozionale unica. Procedendo all’estremizzazione
di molti caratteri - di fatto Teruo ha le fattezze di un cartone animato -
tutti i personaggi paiono meno realistici ma più reali. Il finale è
malinconico e commovente, ma si continua, nonostante tutto, a sorridere
fino all’ultima immagine. Il tutto con un tocco, una levità, una finezza,
una sensibilità, impercettibili ma davvero indimenticabili. E l’ironia
implicitamente racchiusa nel titolo è la condensazione ideale per
replicare ai dubbi e allo sconforto posti in essere inizialmente.
Per ora, continuiamo a guardare il cinema - e questo cinema - con gli
occhi speranzosi e la vivacità di un bimbo, anche se apparentemente già
troppo cresciuto per continuare a esserlo, ma non per questo meno disposto
o capace di continuare a sognare.
Alessandro Tognolo |