Dopo
Exiled
lo scorso anno, torna alla Mostra Johnnie To
con il suo nuovo
film scritto e co-diretto dall’amico collaboratore Wai Ka-Fai. Basta
il titolo per capire che ancora una volta si tratta di un film di
genere, e il genere non può essere che il più consono all’attitudine
dei due autori, e quindi il poliziesco ambientato a Hong Kong. Ma si
può affermare - con solidità di certezze ormai consolidate nel tempo e
rinsaldata ancora una volta – che per Johnnie To lo stile e la classe
non sono fugaci bagliori di casualità.
Mad Detective è certo un
poliziesco ma non così classico da risultare prevedibile e ripetitivo.
Quasi un noir un po’ decadente, capace di percorrere strade meno
insanguinate, atipiche, introspettive. Nonostante non manchino i
fuochi dell’azione, spesso questa è lasciata a slanci improvvisi a
favore di un accumulo di una tensione invisibile ai personaggi, ma non
a noi, pubblico testimone, portatori dello sguardo dell’occhio
stregone-sciamano (mad eye) dell’investigatore. “Il nostro eroe indaga
sui crimini astenendosi dalla scienza e dalla ragione. Possiede la
capacità sovrannaturale di vedere i luoghi più oscuri della mente”.
Mad Detective è a un primo superficiale livello una storia di sbirri
che indagano su omicidi e assassini. Questo è il presupposto per
dipanare l’esposizione dei personaggi e tessere le controverse
relazioni che dovranno stabilire gli uni con gli altri. Ma è la
particolare dote del (mad) detective Bun a scatenare le effettive
(re)azioni dell’intreccio. Bun ha infatti il dono di vedere nell’animo
delle persone, là dove sono messi a nudo i desideri subconsci, le
emozioni e lo stato mentale di ognuno. Grazie a questo abbiamo la
possibilità di vedere ogni personaggio diviso nelle sue molteplici
personalità e l’attrito provocato dalle molteplici richieste e
sensazioni derivate da ognuna di esse. Una capacità però,
difficilmente conciliabile con i metodi inflessibili e sicuri della
realtà, della criminologia tradizionale. Bun diviene così un ex
poliziotto impazzito. Solo, con le visioni che non gli permettono mai
di esserlo davvero. Tra il paradosso e l’incredulità, si viene a
formare - da una parte e dall’altra dello schermo - una curiosità e un
interesse sincero verso quest’individuo, eccentrico ed esagerato,
diverso ma profondamente umano: “anch’io sono umano, perché mai dovrei
essere diverso dagli altri?”.
Il lieto fine e la conciliazione sono una possibilità irrealizzabile
nel putridume dilagante che il corso dell’indagine fa emergere dagli
anfratti delle personalità che indomabilmente affiorano quasi a
prendere il sopravvento e a esporsi, vedendosi, nel ritorno d’immagine
degli specchi disseminati nel luogo della resa dei conti. Specchi
fatti a pezzi da una furente scarica di pallottole, moltiplicatori
imprevedibili, perversi e taglienti, dello sguardo. Sequenza davvero
epocale ed antologica – quella, appunto, conclusiva del rondò di vite
e di morti davanti agli specchi immersi nel fondale nero - tesa e
ineccepibile nella sua mancanza di conclusione del racconto. Proprio a
ribadire quali sono i cardini della storia che stiamo vivendo e
l’importanza della forma come unica tangibile prova di una sommessa
verità coglibile. “Paradossalmente, più cerchiamo di svelare la
verità, più perdiamo il contatto con l’idea di come la realtà dovrebbe
essere”.
Un’estetica, nella sua affascinate precisione e accuratezza, non
invadente, quasi crepuscolare, polverosa e contrastante, costantemente
pervasa da una angoscia che si libra nella leggerezza dei sinuosi
movimenti dell’inquadratura calibrata, ambigua e distaccata.
Fantasmatica. Non c’è scarto tra i demoni che ci comandano. E solo un
folle poteva capirlo.
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