gennaio-febbraio
marzo 2008

trimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 22
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag. 2

    Ho conosciuto Gian Paolo Polesini fuori e dentro le sale cinematografiche del Lido di Venezia in occasione del Festival del Cinema, a cui egli partecipa come giornalista del Messaggero Veneto. Di Gian Paolo, detto “Polle” mi ha colpito subito il suo “cantare fuori del coro”, la sua anomalia, che va dall’abbigliamento sempre molto ricercato, griffato, ai limiti del dandismo, portato su un’abbronzatura da campi di golf, certo non in linea con i dettami della mise classica del critico cinefilo, stazzonato, trascurato, spettinato, con gli occhi arrossati che spiccano sul pallore del volto, per arrivare ai giudizi a caldo sui film, spesso sorprendenti e a volte non condivisibili, ma certo non in linea con i criteri di interpretazione canonici. Altrettanto sorprendente è questo romanzo.
La copertina, nella quale su sfondo nero risalta il titolo
SANGUE (in rosso) BLU (in blu e pertanto molto meno visibile), sovrastato da un blasone a “sei stelle”, potrebbe far presagire qualcosa di ben diverso da ciò che poi si va a leggere.
È di fatto la storia della famiglia Polesini quella che “l’ultimo rappresentante di questa dinastia durata 700 anni” racconta, è anche la storia del dramma degli Italiani dell’Istria, che si sono visti, dopo la guerra, privati di tutto e nella fattispecie di proprietà varie comprendenti anche un castello e un’intera isola: gli ingredienti per un polpettone nostalgico-revanscista ci sarebbero tutti, se non che l’autore, “l’ultimo della stirpe, tale Gian Paolo targato 57” (cito sempre dal risvolto di copertina), ha saputo dimostrare come, con l’ironia e la leggerezza, sia possibile vincere una duplice sfida: quella di rendere un omaggio affettuoso ai propri avi e nel contempo quella di sgravarsi di un peso, che sicuramente tale eredità impone, soprattutto nella consapevolezza di essere colui che è destinato a “metterci una pietra sopra”.
All’interno di una cornice, che anticipa in una sorta di flash forward, la morte del protagonista, la narrazione si sviluppa, seguendo un percorso non lineare, ma piuttosto corrispondente all’intermittenza della memoria, dei ricordi, che si accavallano nella mente del vecchio, evocati da un luogo, una fotografia, una situazione, in un “blob” di storie che si accavallano come in quei film, costruiti come un puzzle, in cui è lo spettatore a dover dare un’unità al tutto.
In questo soprattutto il cinema è presente nel libro, oltre che nelle numerose citazioni di battute famose o amate dall’autore, usate come pillole di saggezza (vedi “osa sempre e, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”: J. Belushi in Animal House), nel modo cioè in cui Polesini ci “mostra” quel mondo, quello dei suoi avi blasonati, e il suo mondo, tanto diverso, ma che pur tuttavia ne conserva le tracce, attraverso il filtro dello sguardo distaccato del narratore, in un’alternanza di registri stilistici differenti, ma accomunati dall’ironia sempre presente e dal piacere di giocare con le parole, come risulta dal passo seguente, che affronta la descrizione della vita dei monaci benedettini che per tre secoli abitarono l’isola di S. Nicolò di fronte a Parendo (poi di proprietà della famiglia Polesini): “…E che hanno fatto per tre secoli svariate e svariate generazioni di religiosi? Oltre a zappare, pregare, fare la zuppa e altre cose con la zeta, come zampettare in giro, bere zibibbo, sniffare zenziglio, collezionare farfalle zeuzera, ingollare zibaldone, piantare zigofillacee, costruire zimbelli, adescare zitelle, zittire i fratelli chiacchieroni, mettere zizzania, zuccherare le torte, suonare lo zufolo, fare zuppetta nella minestra e zonarsi il saio? I religiosi si saranno pure lanciati in cose con la esse o la pi, ma tirare le ore per così lungo tempo, pur pregando e zappando, deve essere stato uno strazio.”.

Cristina Menegolli

Rispetta il passato e non smettere mai di cercarlo
quando non trovi la forza di costruire il futuro