Ho
conosciuto
Gian Paolo Polesini
fuori e dentro le sale cinematografiche del
Lido di Venezia in occasione del Festival del Cinema, a cui egli partecipa
come giornalista del Messaggero Veneto. Di Gian Paolo, detto “Polle” mi ha
colpito subito il suo “cantare fuori del coro”, la sua anomalia, che va
dall’abbigliamento sempre molto ricercato, griffato, ai limiti del
dandismo, portato su un’abbronzatura da campi di golf, certo non in linea
con i dettami della mise classica del critico cinefilo, stazzonato,
trascurato, spettinato, con gli occhi arrossati che spiccano sul pallore
del volto, per arrivare ai giudizi a caldo sui film, spesso sorprendenti e
a volte non condivisibili, ma certo non in linea con i criteri di
interpretazione canonici. Altrettanto sorprendente è questo romanzo.
La
copertina, nella quale su sfondo nero risalta il titolo
SANGUE
(in rosso)
BLU
(in blu e pertanto molto meno visibile), sovrastato da un blasone a
“sei stelle”, potrebbe far presagire qualcosa di ben diverso da ciò che
poi si va a leggere.
È di fatto la storia della famiglia Polesini quella che “l’ultimo
rappresentante di questa dinastia durata 700 anni” racconta, è anche la
storia del dramma degli Italiani dell’Istria, che si sono visti, dopo la
guerra, privati di tutto e nella fattispecie di proprietà varie
comprendenti anche un castello e un’intera isola: gli ingredienti per un
polpettone nostalgico-revanscista ci sarebbero tutti, se non che l’autore,
“l’ultimo della stirpe, tale Gian Paolo targato 57” (cito sempre
dal risvolto di copertina), ha saputo dimostrare come, con l’ironia e la
leggerezza, sia possibile vincere una duplice sfida: quella di rendere un
omaggio affettuoso ai propri avi e nel contempo quella di sgravarsi di un
peso, che sicuramente tale eredità impone, soprattutto nella
consapevolezza di essere colui che è destinato a “metterci una pietra
sopra”.
All’interno di una cornice, che anticipa in una sorta di flash forward, la
morte del protagonista, la narrazione si sviluppa, seguendo un percorso
non lineare, ma piuttosto corrispondente all’intermittenza della memoria,
dei ricordi, che si accavallano nella mente del vecchio, evocati da un
luogo, una fotografia, una situazione, in un “blob” di storie che si
accavallano come in quei film, costruiti come un puzzle, in cui è lo
spettatore a dover dare un’unità al tutto.
In questo soprattutto il cinema è presente nel libro, oltre che nelle
numerose citazioni di battute famose o amate dall’autore, usate come
pillole di saggezza (vedi “osa sempre e, quando il gioco si fa duro, i
duri cominciano a giocare”: J. Belushi in
Animal House),
nel modo cioè in cui Polesini ci “mostra” quel mondo, quello dei suoi avi
blasonati, e il suo mondo, tanto diverso, ma che pur tuttavia ne conserva
le tracce, attraverso il filtro dello sguardo distaccato del narratore, in
un’alternanza di registri stilistici differenti, ma accomunati dall’ironia
sempre presente e dal piacere di giocare con le parole, come risulta dal
passo seguente, che affronta la descrizione della vita dei monaci
benedettini che per tre secoli abitarono l’isola di S. Nicolò di fronte a
Parendo (poi di proprietà della famiglia Polesini): “…E che hanno fatto
per tre secoli svariate e svariate generazioni di religiosi? Oltre a
zappare, pregare, fare la zuppa e altre cose con la zeta, come zampettare
in giro, bere zibibbo, sniffare zenziglio, collezionare farfalle zeuzera,
ingollare zibaldone, piantare zigofillacee, costruire zimbelli, adescare
zitelle, zittire i fratelli chiacchieroni, mettere zizzania, zuccherare le
torte, suonare lo zufolo, fare zuppetta nella minestra e zonarsi il saio?
I religiosi si saranno pure lanciati in cose con la esse o la pi, ma
tirare le ore per così lungo tempo, pur pregando e zappando, deve essere
stato uno strazio.”.
Cristina
Menegolli
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