Una
rassegna cinematografica a tema di forte impatto
psicologico quella promossa a Padova (Porto Astra)
da Università, Usl 16 e Promovies, supportata
dall'analisi "clinica" del professore
Luigi Pavan, incentrata sui disturbi della
personalità e sulle sofferenza interiori che
possono condurre al baratro della disperazione e
della follia.
Ha
dato il via agli incontri il
Il buio nella mente
di
Claude Chabrol, che narra la fusione di due
solitudini, due esistenze femminili marginali
confinate nella campagna francese e costrette a
costumi molto umili. Le vite di queste due donne,
interpretate da Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire,
s’incrociano per caso dopo aver entrambe percorso la
strada del crimine: macchiate di sangue e assolte
per insufficienza di prove, ma sensibilmente
angosciate ed incapaci di reintegrarsi nella
società. Chabrol intesse una trama sottile ed è
maestro proprio nell’indagare questi aspetti della
vita, scandagliando in profondità i drammi personali
di queste figure, come in un romanzo. Il tribunale
ha assolto entrambe, ma il tribunale della coscienza
è vivido sino all’ossessione, i loro misfatti non si
possono cancellare. Una delle due donne si chiama
Sophie Bonhomme, è analfabeta ed è chiusa in un
mutismo che la porta ad ergere una barriera
difensiva tra sé e il mondo, va a servizio presso
una famiglia altolocata, dove tenta in tutti i modi
di nascondere le proprie difficoltà. La proprietaria
della grande villa, Catherine Lelièvre, rappresenta
ciò che Sophie non riesce ad essere, il suo “alter
ego” che ne alimenta pesanti frustrazioni. La
migliore amica di Sophie è Jeanne Marchal, la
postina del paese, una ficcanaso lunatica, ma la
sola con la quale si lasci andare a confidenze e
dialoghi. Ben presto, tuttavia, il legame di
affettività tra Sophie e Jeanne si tramuta in un
mutuo soccorso morboso: c’è tanta voglia di fuggire
da sé e dalle proprie colpe e responsabilità, un
desiderio a cui si accostano ribellioni e forti
tormenti. Non ultima, la volontà di annullare la
perfezione e la felicità di quella famiglia alto
borghese con un raptus di follia omicida. La villa è
il simbolo del benessere, la casa, più
semplicemente, di quegli affetti negati che è meglio
recidere per non vedere o ricordare, la borghesia di
quella libertà e di quei piaceri mai avuti, che solo
un omicidio può eclissare tramite un gesto
disperato.
Dallo
sfogo della rabbia sugli altri si passa alla
paralisi e all’annientamento con la proiezione di
carattere documentaristico del film
The bridge. Il
ponte dei suicidi
di Eric Steel, che mostra il vuoto che si crea con
il “salto” nel Golden Gate di San Francisco. Un
ponte dal quale in quattro secondi si finisce
inghiottiti dalle acque. In America sta diventando
un problema serio perché i “jumper” sono sempre più,
senza distinzione di colore della pelle, di sesso,
di ceto. In quel balzo c’è lo stacco dalla vita, c’è
il rifiuto di continuare e il ponte è un
luogo-limite o, come direbbe l’antropologo Marc Augé,
un “non-luogo”. Infatti ci si trova tra la vita e la
morte e arrivarci significa aver perso
l’orientamento, aver perso la scommessa che ci sono
tante cose per cui vale la pena andare avanti. La
parte documentaristica di questo film è molto ampia
e si vedono figure lanciarsi nel buio: sono state
riprese mentre si buttavano delle persone che si
sono ammazzate davvero e che Steel ci mostra con
coraggio.
Il
tema del suicidio viene affrontato anche ne
Il
giardino delle vergini suicide
di Sofia Coppola. La regista ha una grande intensità
e delicatezza espressiva e le sue protagoniste
sembrano le damigelle di un quadro pre-raffaellita:
sono angeliche creature alla ricerca di un ideale,
il primo amore e la felicità, che s’immolano come
delle vittime sacrificali. L’amore, limpido e
cristallino, si spezza nella morte, pur di non
consumarsi nella viltà dei giorni. Ritornano due
temi classici della narrativa e della poesia, sin
dai tempi antichi, incentrati sul rapporto “eros e
thanatos”. Le cinque sorelle protagoniste del film,
sono fanciulle aggraziate e dolci, malinconiche
figure che vorrebbero scappare con loro coetanei, ma
sono sottomesse da una famiglia autoritaria. Il
legame tra le cinque sorelle è molto forte, ma ha
una natura patologica che le spinge all’autoaggressività
e ad un volo oltre la vita.
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La
XXVI edizione di quello che è considerato uno dei più
bei cinefestival del mondo – che, per intenderci, vede
l’arrivo di appassionati e giornalisti fin da oltre
oceano – è tornato a…casa. Dopo la pluriennale
parentesi in cui per cause tecniche e logistiche ha
dovuto essere collocato nella adiacente Sacile, ora ha
ritrovato la sua sede di nascita e di elezione nel
rinnovato teatro Verdi, bianca artistica cattedrale
nel cuore di Pordenone.
Come sempre la ricchezza delle offerte e degli eventi
era da cine-sindrome di Stendhal (se si passa il
neologismo, orribile ma non esagerato): musica ed
immagine l’hanno fatta da padroni per un programma che
spaziava tra temi ed autori lontanissimi tra loro , ma
vicinissimi nel cuore dei cinefili.
L’altra Weimar,
territorio immenso tra Espressionismo, Kammerspiel,
Lang, Murnau (per non citare che alcuni ismi ed
autori), punta di un iceberg pressoché sconosciuto,
tra cui presenze ebraiche nella produzione tedesca
come Die Hose (A Royal Scandal), il film di
Hans Behrendt, futura vittima della Shoah,
interpretato da Werner Krauss e Veit Harlan, figure
centrali di Jud Suess–Suss l’ebreo, alla
visione di Lulù di Pabst, con una grande
grandissima Louise Brooks, icona sempiterna della
cinematografia di tutti i tempi.
René Clair
si può forse definire il regista di fama più equivoca:
molti lo osannarono, molti lo denigrarono. Non piaceva
alla feroce critica della Nouvelle Vague, certo, ma i
cosiddetti divertisséments su cui appose la
firma tra il 1923 ed il 1928, lo sono di certo, pieni
di verve, di ricchezza umoristica, di trovate geniali
a livello scenografico, ben ‘copiate’ poi da molti.
Godibilissimi, intrattenimento allo stato puro e visti
in ottima copia restaurata i suoi Le voyage
immaginaire, La proie du vent, Paris qui
dort, Les deux timidés, l’impagabile Le
chapeau de paille d’Italie, magistralmente
interpretato anche dai comprimari minori, in perfetto
equilibrio per uno dei primi pezzi di vero teatro al
cinema. Ma la parte del leone l'ha fatta sicuramente
il notissimo Entr’acte, musicato dal grande
Erik Satie su opere di François Picabia, Marcel
Duchamp, Man Ray.
L'omaggio
all’opera di
David W.
Griffith (per
il periodo 1921–1924) - iniziato virtualmente a
Venezia che, all'ultima Mostra ha proposto come evento
di apertura (nella corsia delle Nuove Versioni
Restaurate), Intolerance, il capolavoro
del 1916 - con ben cinque titoli tra cui Orphan of
the Storm.
Chicago,
splendido film con altrettanto memorabile colonna
sonora (affidata all’esecuzione dell’ensemble musicale
Prima Vista Social Club), qui in anteprima europea
con copia in 35 mm. di recente restaurata dall’Ucla.
Cecil B. De Mille, dato il fatto di cronaca nera base
del plot della pellicola, ne fu il supervisore
artistico. Nello stesso periodo stava lanciando il suo
kolossal religioso, Il re dei re, per cui non
sarebbe stato opportuno che il suo nome fosse
associato ad una storia noir; dunque è sicuramente più
corretto dire che il suo aiuto, Frank Urson, ne è in
fondo l’autore.
Chicago resta in ogni caso un testo di importanza
quasi unica nella storia del musical, "accreditato"
dalle molte altre versioni, buon ultima
quella del 2002,
ispirata al musical di Bob Fosse, diretta da Rob
Marshall.
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