Hong Kong:
l'araba fenice
Pietro Liberati
Dopo
una crisi durata qualche anno, il cinema di Hong Kong si sta
riaffermando in alcuni generi ben precisi. A sorpresa, spetta proprio
alla città-stato la segnalazione dell’anno al Far East Film Festival,
per la qualità media dei film proposti.
Dai tempi di
Infernal Affairs (presentato
proprio al FEFF del 2003) e dei suoi splendidi seguiti (proposti a Udine
l’anno successivo) una generazione di autori sembra aver eletto il noir
a genere principe per descrivere il momento storico che sta passando il
Paese.
E’ così che un autore di melodrammi come Derek Yee dirige un
bellissimo thriller notturno intinto nella tragedia greca (il titolo è
One Night in Mongkok), tutto stretto dall’unità di tempo in
quello che, per tradizione, è conosciuto come “il posto più popolato
della terra”, che diventa però un luogo tristemente desolato, preda di
crimine e violenza, non appena cala la notte. Ma ancor più
sorprendente
è
Crazy’n the City, prodotto dallo stesso Yee e diretto da James
Yuen, che ci propone un originale affresco della Hong Kong moderno, che
attinge a vari generi (commedia, thriller urbano, dramma sentimentale)
donando allo spettatore un’immagine non stereotipata della città e della
fatica di viverci, prendendo il punto di vista di un duo di poliziotti,
una novellina e il suo disilluso istruttore. Una bella accoppiata di
titoli, ispirati al cinema di
Johnnie To
nella loro anima
anticonvenzionale, ma autonomi nel risultato. To era peraltro presente
con Yesterday Once More, che appartiene al suo filone commerciale
ed ha come più grande punto di interesse quello di essere stato girato
in parte proprio a Udine quando il regista fu ospite del Festival
(2004).
Ma a questo Far East si è segnalato anche un nuovo, piccolo autore. E’
Pang Ho-Cheung (già regista del divertente Man Suddenly in Black)
che quest’anno ha presentato due lavori: un simpatico thriller rosa (Beyond
Our Ken, ben più sagace di quanto sembri al primo sguardo) dove due
ragazze amano lo stesso uomo e la spassosa commedia corale AV, in
cui un gruppetto di ragazzi improvvisa una produzione di film porno, un
po’ per vincere la noia, un po’ per raggranellare quattrini.
Dall’ex colonia britannica provengono forse pochi generi oggi (non è un
caso che non ci fossero film, hong-konghesi durante l’horror day) ma in
quei generi i cineasti riescono a dimostrare che creatività e linfa
vitale sono ancora di casa nel luogo in cui, vent’anni fa, trovò spazio
una delle nouvelle vague cinematografiche più significative del XX
secolo.
|
La top-ten
del cinema coreano
Alessandro Tognolo
Il
cinema coreano rappresenta di sicuro una delle realtà più fervide nel
panorama del cinema mondiale. Non è un caso che sempre più
frequentemente film coreani riscuotano premi e successo ai festival e
godano poi di una degna distribuzione nelle sale (impensabile qualche
anno fa). Un esempio su tutti è
Kim Ki-duk:
l’eclettico autore di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora
primavera e Ferro 3, ora nelle sale con La Samaritana,
è il capostipite di una cinematografia molto apprezzata in occidente ma
che in patria non ottiene il medesimo successo. Stesso discorso per
Park Chan-wook (Old
Boy), Lee Chang-dong (Oasis)
e Jang Sun-woo a cui la
prossima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro
dedicherà una retrospettiva completa.
Cinema
di genere il più delle volte, che minimizza la straordinaria
fruttuosità di una realtà a noi (troppo) lontana che ci guarda con
profonda considerazione (soprattutto verso il passato). Attraverso i
pochi autori che arrivano da noi, è già possibile scorgere lo
slancio vitalistico di
un cinema che sperimenta, mescola, inventa, salda, genera forme
creative, spesso tra loro le più disuguali, e, in definitiva, risulta
essere il più innovativo. La selezione dei dieci film coreani presenti a
Udine offre la rarissima possibilità di infiltrarsi nella
produzione dei film destinati, prima di tutto, al pubblico d’oriente. Un
pubblico tutt’altro facile da soddisfare che preferisce (anche lì si
ripete la stessa storia) le megaproduzioni made in Usa. Un pubblico
affamato di star, richiestissime, garanti del buon successo al
botteghino. Ne è un palese esempio Everybody Has Secrets di Chang
Hyun-soo, con protagonista il super desiderato Lee Byung-heon, sul quale
è costruito tutto il film, remake di About Adam di Gerard Stembridge.
Una gradevole commedia degli equivoci che non manca di brio, ironia e
romanticismo, senza mai scadere nella volgarità e senza perdere mai il
ritmo della narrazione. È proprio con la commedia che il cinema coreano
si confronta sempre più spesso, vuoi perché tendenzialmente più gradita
rispetto al (melo)dramma, vuoi perché complessivamente meno sviscerata e complessa da affrontare nelle sue varianti. Due i due
titoli ascrivibili al genere presenti al festival: Flying Boys di Byun
Young-joo e Someone Special di Jang Jin. Il primo una commedia
generazionale con protagonisti un ragazzo e una ragazza prossimi
all’esame di maturità, il secondo curioso esempio di un’inusuale
commedia romantica. Di quest’ultimo in particolare colpiscono la
leggerezza e l’armonia, con due attori
magnificamente disinvolti e coinvolgenti, dove il tempo sembra
congelarsi nella serie di eventualità che producono (di fatto) la
quotidianità. Uno sguardo pudico che sembra scovare e sorprendere due
vite che si sfiorano e si guardano, proseguendo poi nella loro
ineluttabile continuità.
Sul versante opposto alla commedia sono stati presentati tre titoli
profondamente densi: A Family di Lee Jung-chul, un intenso melodramma su
un difficile rapporto tra un padre malato terminale e la figlia appena
uscita di prigione, che tende eccessivamente alla ricerca della
commozione e della lacrima e con un trasporto che il più delle volte
appare rigorosamente ricercato; il maturo Road di Bae Chang-ho, regista
saldamente strutturato nel genere, che ripercorre la memoria di un uomo
attraverso un lungo flashback nella Corea degli anni Settanta; il
coraggioso e tenero Green Chair di Park chul-soo, storia d’amore vissuta
da una trentenne divorziata innamorata di un ragazzo all’ultimo anno di
liceo. Una storia d’amore anomala che si spinge e lotta contro la morale
comune, perbenista e stolta, pronta a giudicare le apparenze e la forma.
Il merito di questo film è proprio il mostrare i sentimenti, avvicinarli
a quelli di qualunque altra storia d’amore, mostrare il sesso e la
passione senza limitazioni formali, serenamente, caricando di intensità
le carezze e le mancanze, mostrando la regolarità dei bisogni e della
fisiologia come, appunto, il sesso, il sonno, i baci, il cibo, i
sorrisi. Lo sviluppo è imprevedibile per la capacità di essere allo
stesso tempo eversivo e minuziosamente accorto a definire attraverso i
dettagli il soggetto e il contesto di sviluppo della relazione amorosa.
Di difficile comprensione per gran parte del pubblico in sala, forse per
l’incapacità di avvicinarsi al tema, ma decisamente affascinante e,
tutto sommato, inusuale, per le modalità che portano allo sviluppo della
stravagante narrazione.
Concludono la selezione pellicole di genere completamente differente:
non poteva mancare l’horror con R-Point di Kong Soo-chang, ambientato
nella Cambogia occupata dai militari; Some di Chang Youn-hyun,
commistione di thriller, giallo e storia d’amore; To Catch a Virgin
Ghost di Shin Jung.won, che, per contro, fa la parodia proprio
dell’amato (dai coreani) horror e del gangster movie. Arahan di Ryu
Seung-wan sembra invece uscito direttamente da un fumetto con supereroi
con superpoteri che hanno però il volto comune di proletari. Un film
d’azione dichiaratamente commerciale intriso di agitate sequenze che
hanno come sfondo un glorioso ritmo musicale, che deve molto ai film di
kung-fu di Hong Kong, condito però con una spassosa nota di umorismo e
ironia con la quale i personaggi sembrano confrontarsi per tutta
la durata della storia. Anche qui, come spesso capita nelle produzioni
coreane, l’ibrido è l’essenza del rinnovamento dei generi e la spinta
promotrice di una cinematografia vivida e mutevole. |