COSMICA

Gli infiniti mondi

del visibile cinematografico

PALAZZO GRASSI

Circuito Cinema Comune di Venezia

in collaborazione con

Cinema Edera (Treviso) e Cinema Torresino (Padova)

Venezia - Giorgione Movie d’essai 6 aprile - 25 maggio

Treviso - Cinema Edera 6 aprile - 30 maggio

Padova - Cinema Torresino 11 aprile - 1 giugno

   

Oltre il visibile

di Roberto Ellero

Hic sunt leones. Sin dai primordi (roba, ormai, di due secoli fa), il cinema ha rischiato volentieri di confrontarsi con le categorie dell’ignoto e dell’infinito. L’ha fatto - da subito, grazie al buon Méliès e al suo improbabile ma decisamente accattivante Voyage dans la lune - sul terreno che più direttamente gli compete, quello della visibilità, o - se preferite - della rappresentazione di un visibile che non necessariamente corrisponde all’esperienza oculare ma che diviene reale nell’istante stesso in cui è la luce di proiezione sullo schermo ad inverarne l’esistenza, sia pure soltanto filmica. Altro che realismo...

Un secolo e oltre di cinema, del resto, non fa che confermare tale vocazione, in ambito per prima cosa fantascientifico (vero e proprio genere forte), ma non solo. Se tutti i film sono visioni, non è tuttavia sempre detto che ogni visione sia visionaria, mentre l’esperienza cinematografica di ciascuno può ben testimoniare che anche visionarietà e visibilità non sempre vanno a braccetto. "Meno vedi e più ci credi" diceva Martin Scorsese a proposito del noir classico hollywoodiano, ché poi - si sa - è anche una gran bella economia. O volete forse credere che Myrick e Sanchez non lo sapessero quando hanno architettato il loro parimenti celebrato e vituperato The Blair Witch Project?

Visionarietà e visibile cinematografico (ben oltre i limiti del visibile che ci è consueto, dunque, ma tenuto anche conto della possibile antinomia, fra i due termini, non solo della loro "scontata" sinonimia) sono i poli entro cui oscilla Cosmica, la rassegna organizzata dal Circuito Cinema del Comune di Venezia e da Palazzo Grassi in occasione della mostra Cosmos. Non un inventario esaustivo e neppure una selezione esemplare; la paradigmaticità, piuttosto, di un percorso libero da pregiudizi, assolutamente parziale, evocativo di punti vista filmici variamente ispirati alle categorie dell’ignoto e dell’infinito, in una visione certamente cosmica, con o senza precedenti letterari ma inevitabilmente senza alcuna certezza filosofica o soltanto ideologica. Nudi verso la meta, o quasi.

A modo suo, è comunque un percorso costellato di tappe miliari, questo sì. Ma tappe miliari talvolta del tutto particolari, visto che il punto di partenza è costituito dal piccolo film ultraindipendente e iperamatoriale (nel senso migliore del termine) di Franco Piavoli Il pianeta azzurro, mentre quello d’arrivo sfocia nel Blue avvolgente e totalizzante di Derek Jarman: come dire, dall’infinitamente piccolo che ci appartiene ma che non conosciamo all’infinitamente grande che forse continueremo ad immaginare soltanto ad occhi spalancati verso il cielo, quel cielo notturno che riempie invariabilmente lo schermo di Jarman ma che - fuor di rassegna - apre e chiude anche lo splendido ultimo David Lynch di Una storia vera. In mezzo, strada facendo, gli scenari di Topor per l’apocalittico Pianeta selvaggio, il panico e ammonitorio Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio e Philip Glass, la fantascienza "interiore" del Solaris di Tarkovskij, le scenografie futuribili del Blade Runner di Ridley Scott, le paure tecnologiche del Wenders di Fino alla fine del mondo, aggiornate e aggravate - se possibile - dall’intelligenza artificiale che regna su Matrix.

Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, si diceva una volta. Troppo facile. Il Novecento che ci abbiamo lasciato alle spalle non si è certo mostrato capace di tanta intelligenza nel delicato missaggio, lasciandoci in eredità più dubbi che valori. Abbiamo la nuova economia, il virtuale e l’immateriale, che tendono a rendere il cinema stesso un’invenzione del passato, datata. Ma, si sa, doveva essere senza futuro già all’epoca dei Lumière, il cinema, ed invece è ancora qui a dirci la sua, a mostrarci il suo visibile, a svelarci gli infiniti mondi, lontani e vicini, che soltanto il suo occhio è in grado di scorgere e farci vedere.

 

 

 

 

IL PIANETA AZZURRO

Reg. Sogg. Scg. Fot. Mont. Franco Piavoli
Ass. Reg. Neria Poli
Mont. Suo. Giuliana Zamarola
Mixage Fausto Ancillai
Int. attori non professionisti, ripresi nella vita reale
Prod. Silvano Agosti per la "11 Marzo Cinematografica"
Or. Italia 1982
Dur. 90’

Proveniente dal cinema amatoriale, Franco Piavoli dirige nel 1982, con Il pianeta azzurro, il suo primo lungometraggio. Abbandonata la professione forense, nel 1961 esordisce con un cortometraggio, Stagioni, dedicato al mondo della natura, alla cui osservazione si dedicava da tempo unendo, all’esercizio dell’avvocatura, pittura, fotografia, studi di botanica e di etologia. In seguito realizza altri corti, tra il ’62 e il ’64, dedicati alle balere (Domenica sera), agli Emigranti o ai tifosi (Evasi). Quindi più nulla, per quattordici anni, se si esclude una puntata televisiva (dal titolo sintomatico, Periferie) della Macchina cinema. Lasciato l’insegnamento nel 1978, il regista inizia il progetto che lo porta poi al Pianeta azzurro, completato nel 1982. Presentato alla 50ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 1982, il film destò grandissima sorpresa per la sua assoluta anomalia linguistica: per l’intero arco di un’ora e mezza le voci sono suoni confusi, mescolati con i "rumori" della natura, dall’acqua che scorre a quella che cade, dal fruscio del vento, ai versi degli animali, persino al respiro della terra che evapora. Per creare questa speciale colonna sonora Piavoli ha dovuto fare ricorso a tecniche più sofisticate di quelle usate per le riprese: microfoni direzionali di alta sensibilità ed elaborazione al mixer per la prima, obiettivi luminosissimi, senza zoom o filtri, inquadrature fisse a eccezione di qualche lenta panoramica o carrello verticale, per le seconde. È un’autentica partitura visiva e fonica dove la musica è poco presente nel sonoro (c’è Maderna all’inizio e des Prés alla fine e poco altro), ma non nella scansione dei ritmi evocati dalle immagini, che ben si adattano a tipici movimenti musicali, dall’Adagio all’Allegro, dal Presto all’Andante. Lo stesso alternarsi delle stagioni ricorda, al di là delle frequentazioni vivaldiane, la sinfonia classica in quattro movimenti, in cui le voci e le immagini del genere umano sono solo un aspetto, minoritario, del più complessivo equilibrio esistenziale del pianeta, che appare azzurro a chi lo osserva da distante, come gli astronauti. Quella delle stagioni è l’evoluzione più evidente del film, che svolge altri due temi, quello biologico, sullo sfondo, e la quotidianità elementare - l’amore, il lavoro, la nascita, la morte, il donno, il pianto, la violenza - passata in rassegna attraverso un giorno e mezzo nel corso delle quattro stagioni. La trama di fondo è dunque il passaggio del tempo in diverse dimensioni, in un’ottica estetica che tra il rimpianto nostalgico di Ermanno Olmi, il documentario disneyano o il cantico francescano di Zeffirelli sceglie la strada, difficile, ma più originale e fortemente lirica dell’entomologo.

Michele Gottardi

 

IL PIANETA SELVAGGIO

Tit.Or. La planète sauvage

Reg. René Laloux
Scn. e Dial. Roland Topor, René Laloux (dal romanzo "Oms en sèrie" di Stefan Wull)
Dis. Or.
Roland Topor
Resp. Graf. Joseph Kabrt, Joseph Vania
Fot. (colore). Lubomir Rejthar, Boris Baromiykin
Mus. Alain Goraguer
Prod. Les Films Armorial-ORTF/Ceskonslovensky Filmexport
Or. Francia-Cecoslovacchia 1973
Dur. 72’

Il pianeta Ygam è abitato dai Draags, androidi di dodici metri, occhi rossi, pelle blu e orecchie a conchiglia. Raggiunti i più alti livelli della scienza vivono di "meditazione". La compagnia preferita dei loro figli, i loro "animali domestici", sono gli Oms, piccoli uomini provenienti da un lontano pianeta devastato. Ma Terr, l’Oms di Tiwa, capisce che la "conoscenza" dei giganti-padroni avviene con messaggi captati attraverso una sorta di cuffia elettronica. Rubatane una si unisce ai suoi simili fuggiaschi che i Draags cercano di sterminare. Rifugiatisi sottoterra gli Oms superstiti rinvengono un antico deposito di missili e, con la "conoscenza" ottenuta dalla cuffia elettronica, ne ripristinano, col tempo, l’utilizzo. Parecchi anni più tardi (solo settimane nella vita dei Draags) gli Oms guidati da Terr raggiungono il vicino Pianeta Selvaggio dove, scoperto il grande segreto della "conoscenza" dei Draags, disturbano i loro riti sacri. I Draags capiscono che gli Oms sono "anche" esseri intelligenti e permettono loro di vivere in pace nel Pianeta Selvaggio.
Se si pensa alle sue potenzialità espressive si potrebbe indicare nel cinema d’animazione il linguaggio eletto per concretizzare il futuribile. Invece, al di là delle inquietanti più che fantascientifiche "anime" televisive giapponesi, pochissimi rimangono i tentativi compiuti. E se
Heavy Metal (Gerald Potterton, 1981) ha come referente più il fumetto che il cinema, La planète sauvage rappresenta il tentativo più ambizioso tanto da rimanere l’unico lungometraggio animato presentato in Concorso ad un Festival (Cannes 1973). Roland Topor offre a René Laloux (che poi lavorerà anche con Moebius) la possibilità di costruire un’opera compatta che riesce a materializzare le paure insite in un futuro supertecnologico apparentemente illuminato ma potenzialmente dimentico dell’essenza dell’uomo. Il clima "pre-new age", quasi stordito, della categoria dominante degli androidi è posto, visualmente, in assoluto contrasto con l’imbarbarimento dell’uomo sottomesso ma pronto ad approfittare di ogni possibilità di riscatto. Lo stile illustrativo scabro ed essenziale (anche da un punto di vista tecnologico povero ma efficace) riesce, rasentando qualche picco poetico, a rendere palpabile lo scontro tra i due estremi possibili dell’evoluzione che potranno sopravvivere solo comprendendo e rispettando le reciproche differenze.

Carlo Montanaro

 

KOYAANISQATSI

Tit.or. idem
Reg. e Sogg.
Godfrey Reggio
Scn. Ron Fricke, Godfrey Reggio, Michael Hoenig, Alton Walpole
Fot. Ron Fricke
Mus. Philip Glass
Suo. Michael Stocker
Mont. Alton Walpole, Ron Fricke, Anne Miller
Prod. Godfrey Reggio
Or. USA 1983
Dur. 87’

Koyaanisqatsi, nella lingua degli indiani d’America hopi, è una parola dal significato complesso: indica una vita folle ma anche tumultuosa, squilibrata, in disintegrazione, uno stato di vita infranto che si muove verso un nuovo equilibrio. Il messaggio del film, già chiaro nel criptico titolo, si ispira a una profezia incisa sulla roccia di una grotta che appare in una delle prime sequenze: la dialettica tra natura e progresso che ha visto la natura prepotentemente soppiantata dalla presenza dell’uomo, della civiltà meccanizzata e della tecnologia. "Quale sarà il destino del mondo?", sembra chiedersi il regista. Ma il film di Reggio non è un semplice pamphlet moralistico-ecologista, un documentario in stile National Geographic, quanto un vero e proprio poema cinematografico, unico nel suo genere, senza parole, fatto di immagini e musica perfettamente fuse insieme. Il suo è uno sguardo cosmico, visionario, poetico, che procede per ‘illuminazioni’ come la poesia, che cerca di abbracciare tutto e di osservare l’insieme della natura e dei suoi fenomeni lasciando parlare il reale e agendo solo sulla velocità delle riprese, con rallenti e accelerazioni, in modo da accentuare il messaggio emotivo. "Vorrei che la gente scappasse nella realtà e non dalla realtà come avviene per gli altri film", ha affermato una volta il regista, e con questo film egli conduce lo spettatore in una dimensione privilegiata, per innescare in lui un processo di consapevolezza, per fargli osservare e giudicare la realtà che ci circonda. Le immagini della natura (stupende le inquadrature aeree delle Montagne Rocciose e della Monument Valley), quelle dell’industrializzazione e quelle del ritmo caotico delle metropoli americane contemporanee sono orchestrate in ‘movimenti’, come un poema sinfonico, da Philip Glass che ha partecipato alla realizzazione del film fin dalle riprese, dando alla musica una struttura narrativa ed emotiva ad esse indissociabile, tanto da farci spesso "sentire le immagini e vedere la musica". Nel complesso l’operazione ricorda un po’ quella di Fantasia di Walt Disney, ma anche, sicuramente, 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Come loro, Koyaanisqatsi rappresenta un viaggio nel tempo e nello spazio, una riflessione sul mondo e sul ruolo dell’uomo, un film che ha richiesto sette anni di lavorazione e che ha utilizzato la tecnologia per condannare la tecnologia.

Massimo Chirivi

 

SOLARIS

Tit. Or. Soljaris
Reg. Andrej Tarkovskij
Sogg. Dal romanzo omonimo di Stanislaw Lem
Scn. Andrej Tarkovskij e Fridrik Gorenshtein
Fot. (Scope, Sovcolor): Vadim Yusov
Scg. Michail Romadin
Mont. Andrej Tarkovskij
Mus. Eduard Artemjev, Preludio e Corale in fa minore di Johann S. Bach
Int. e Pers. Natalja Bondarciuk (Harey), Donatas Banionis (Kris Kelvin), Juri Jarvet (Snaut), Anatolij Solonicijn (Sartorius), Vladislav Dvoreckj (Berton), Nikolaj Grinko (il padre di Kelvin), Sos Sarkisjan (Gibarian)
Prod. Mosfilm
Or. URSS 1972
Dur. 105' (v. or.: 165')

"Ma perché andiamo a frugare l'universo quando non sappiamo niente di noi stessi?". Quello che si chiede Kris Kelvin, il protagonista del film erroneamente lanciato come "la risposta sovietica a 2001", è in effetti il punto nevralgico della pellicola diretta dal regista russo tra il grande affresco epico di Andrej Rublëv del 1966 e l'incursione nei dolorosi e poetici riflessi della memoria di Zerkalo (Lo specchio, 1974). L'opera di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio (1968) presenta notevoli differenze rispetto alla vicenda dello psicologo Kelvin alle prese con il problema dell'oceano pensante del pianeta Solaris e con le "creature" che, attraverso le sue emissioni magmatiche, vengono materilizzate dalla coscienza degli scienziati al lavoro nella vicina stazione orbitante. E però il fondamentale motivo comune della circolarità del tempo riesce a sviluppare potenti percorsi narrativi e di riflessione sui destini dell'Uomo nell'era della Macchina così come di esiti anticipatori per contesti metacinematografici o, come si preferisce ormai vanamente indicare, postmoderni. Il computer kubrickiano Hal 9000, generatore e vittima del Grande Dispositivo Tecnologico applicato al tema del distacco e del controllo, farà da supporto originale per l'apertura alla science fiction favolistica ed ipersofisticata dei tre decenni successivi (nel superamento di quella ideologico-politica dell'alieno "pericolo rosso" degli anni Cinquanta). A sua volta le copie di Tarkovskij sono sia preziosi pattern per le molte variazioni frankensteiniane della figura del robot-replicante, sia soggetti attivi del sempre temuto ed anelato contatto extraterrestre, nonché pretesto per rappresentare, cioè per scolpire, il Tempo: sia quello cronologico che quello della visione interiore, attraverso le dinamiche del tempo del cinema. Quei piani-sequenza memorabili, a loro modo già testi fantascientifici autonomi nell’inquadratura, cellule del ricordo e dell'invenzione fantastica, dentro alle quali passato e futuro trovano provvisoria consolazione solo nell'esaltazione del presente cinematografico e dei suoi movimenti di macchina, tesi a descrivere l'ampia parabola della partenza e del ritorno. Estremi cari alla fantascienza cineletteraria che però in Tarkovskij sono dimensioni non della Macchina ma dei labirinti della Coscienza, delle sue crepe e delle laceranti scissioni (il "dentro" ed il "fuori" dello spazio, il cinismo scientifico e l'ignoto morale). Dunque non modellini di astronavi ma complesse architetture dell'anima, non mondi interstellari ma viaggio metaforico verso l'inesplorata realtà interiore, ai confini del sentimento della vergogna trasformata simbolicamente in un "oggetto" capace d'amare, una cosa (Harey, la moglie di Kelvin). Una cosa che, al pari dell'oceano, proiezione fatta carne delle ossessioni dell'uomo, manifesta però anche disponibilità all'amore, all'impossibile, alla condizione di sapersi (far) guardare in fondo all'animo secondo il valore tipicamente tarkovskiano del sacrificio: solo il Padre rimane il custode della Tradizione, dell'Autorità, del Perdono e della Cultura. E quando si tratta finalmente di porre termine all'odissea di Kelvin dopo gli abissi e le esaltazioni del passato, questo Sisifo dell'inconoscibile non potrà che precipitare verso il presente, verso la Terra dove davvero ritorna, ma da dove potrebbe, se tutto fosse solo un'onirica immaginazione filosofico-fantascientifica, anche non essere mai (ancora) partito. L’Uomo, la Casa e l'Acqua possono allora essere un'isola al pari dei pensieri, veri arcipelaghi del sogno abitante nella realtà: essi stanno sia dentro l'oceano-mente dell'uomo, sia fuori di esso e tutto è ricompreso nell’incessante scorrere delle Macerie del Tempo. In questo modo la grande utopia etica e cosmica del cinema dell'autore di Stalker e di Nostalghia è salva.

Fabrizio Borin

 

BLADE RUNNER - The Director's Cut

Reg. Ridley Scott
Sog. Dal romanzo "Do Androis Dream of Electric Sheeps?" ("Cacciatori di androidi") di Philip K. Dick
Scn. Hampton Fancher, David Peoples
Fot. (Technicolor, Panavision) Jordan Cronenweth
Eff.Spec.Fotogr. Dave Stewart
Eff. Spec. Douglas Trumbull, Richard Yuricich, David Dryer
Scg. Lawrence G. Paull
Cost. Charlés Knode, Michael Kaplan
Mus. Vangelis
Mont. Terry Rawlings, Marsha Nakashima
Suo. Bud Alper
Int. Harrison Ford (Rick Deckard), Rutger Hauer (Roy Batty), Sean Young (Rachel), Edward James Ohmas (Gaff), M.Emmet Walsh (Bryant), Daryl Hannah (Pris), William Sanderson (J.F.Sebastian), Brion James (Leon), Joe Turkel (Tyrell), Joanna Cassidy (Zhora)
Prod. Michael Deeley e Ivor Powell per la Ladd Company e Sir Run Run Shaw
Or. USA (1982)/1991
Dur. 115’

 

Astolfo e l’ippogrifo, Deckard e l’unicorno. Dall’epica ricerca lunare del senno perduto, al dubbio dell’identità in una civiltà sintetica, dove la scienza ha incrinato le certezze della dignità umana. Proprio come il final-cut di Ridley Scott ha minato alle radici le digressioni cinefile di cui, nel decennio della sua prima esistenza (1982-1991), si erano individuate iperboli romantiche, contaminazioni di sequenze, generi e stili: il radioso finale per il Marlowe del futuro e la sua amata ("Rachel era speciale: non aveva data di termine. Non sapevo quanto saremmo stati insieme. Ma chi lo sa?" su immagini di scarto di Shining), l’io narrante del noir applicato alla science-fiction…
Liberamente tratto dal romanzo di Philip K. Dick "Do Androids Dream of Electric Sheeps?",
Blade Runner si configura come una detective-story esistenziale intrisa di pioggia e lacrime, di ricordi incerti e nostalgia lacerante ("tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia"). La Los Angeles futuribile (2019!) di Syd Mead, barocca e decadente, caotica e spettrale è il visibile cinematografico di un corpo a corpo teso e simbolico. In essa il Killer della legge Deckard-Harrison Ford "corre sul filo della lama" alla caccia di replicanti, alieni così simili all’uomo da aspirare in toto alla condizione umana. La loro disperata ferocia è il limite assurdo di una tensione esistenziale messa alle strette, ma la loro sconsolata solitudine non è poi così lontana dalla malinconia di Deckard, nauseato dalla non-umanità degli umani, innamorato di Rachel (Sean Young), replicante così perfetta da credersi ingenuamente davvero umana.
Il confronto Deckard-Roy (il biondo alieno interpretato da Rutger Hauer) è proprio tra chi prova la greve avventura del reale e chi ha conosciuto l’avventura mitica del cosmo ("Ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione..") tra chi aspira alla promozione a uomo e chi dispera nella "promozione umana": l’universo parossistico in cui Scott li avvolge mette a fuoco un’affascinante dimensione d’eccesso, dove cercare di costruire il proprio io diventa un gioco al massacro, dove la violenza è l’ultima spiaggia del tentativo di esistere, dove il sax suona languido e nostalgico come in un nero anni cinquanta, dove le suggestioni visive trovano più forza dei discorsi esistenziali, dove dalle lacrime, o da un bacio, come per clonazione, il desiderio del sentimento crea il sentimento stesso…
Eppure, su un tessuto narrativo e iconico già così ricco e ben sedimentato nell’immaginario cinematografico degli anni Ottanta, la riedizione operata da Scott introduce degli scarti non solo stilistici (l’eliminazione della voce-off non è una perdita di senso, solo di "atmosfera") ma sostanziali. Se lo slogan della Tyrell Corporation resta "più umano dell’umano", l’ottimistica opportunità di salvezza offerta a Rachel viene ora drasticamente soppressa (la porta dell’ascensore si chiude sul riecheggiare della voce di Gaff: "Peccato che lei non vivrà. Ma, poi, è vivere questo?") e quell’unicorno sognato da Deckard (e che ritorna nell’origami lasciato sul terreno da Gaff) induce il sospetto che anche il suo inconscio e i suoi ricordi siano falsati da innesti artificiali. Non per niente, quando lui e Rachel discutono del test Voight-Kampff nella prima edizione la frase di lei è: "Tu non sai quanto pesante è subirlo", nella nuova versione: "L’hai mai provato su di te?". In entrambi i casi Deckard non risponde.

Ezio Leoni

 

FINO ALLA FINE DEL MONDO

Tit or. Until the End of the World
Reg. Wim Wenders
Sogg. Wim Wenders, Solveig Dommartin
Scn. Peter Carey, Wim Wenders
Fot. Robby Müller
Mus. Graeme Revell
Mont. Peter Przygodda
Int. William Hurt, Solveig Dommartin, Sam Neill, Max von Sydow, Rüdiger Vogler, Jeanne Moreau
Prod. Jonathan Taplin, per Road Movies/Argos Films/Village Roadshow/Transpacific Intl
Orig. Germania/Francia/Australia/Giappone/USA 1991
Dur. 158’

Se, come diceva Roland Barthes nei "Frammenti di un discorso amoroso", in amore "le ferite più dolorose sono causate più da ciò che si vede che da ciò che si sa", solo l'amore ha il potere di rendere l'immagine vera e necessaria, restituendo al visibile la sua originaria autenticità fenomenologica. In Fino alla fine del mondo la proliferazione tecnica delle immagini, la loro strumentalità e commerciabilità infinita, diventano l'elemento falsificante e patologico, che distanzia dalla realtà, deformandola in modo incontrollato e virale. Mentre il mondo è sull'orlo di una catastrofe causata dalla caduta di un satellite nucleare indiano ("fine del mondo" in senso temporale), i tre protagonisti del film, lo scrittore Eugene, la moglie Claire e l'angelico "cacciatore d'immagini" Sam Farber, si inseguono per amore lungo un itinerario che va dalla laguna di Venezia agli antipodi del deserto australiano ("fine del mondo" in senso spaziale). Si tratta di un viaggio formativo, di una "Bildungsreise", tema wendersiano dai tempi di "Falso movimento", in cui, alla fine, i tre riusciranno a trovare un nuovo equilibrio, mediato proprio da quella rivalutazione della parola, della storia, del racconto che l'intreccio del "discorso amoroso" consente. Così, non è la condanna "tout court" della visione e dell'immagine a produrre questa trasformazione, ma piuttosto la scoperta della natura necessariamente relazionale del vedere, ossia del fatto, costitutivo del "fare" stesso del cinema, che vi è una responsabiltà, una posizione morale ed affettiva, in ogni sguardo e, quindi, in ogni inquadratura. Ecco che la tonalità "apocalittica" (nel senso della "catastrofe") dell'inizio, che pessimisticamente non scorge altra autenticità possibile che nella distruzione delle immagini e nell'elisione dell'intenzionalità della visione, può convertirsi in una diversa accezione, creativa e realmente "apocalittica" - ossia "rivelativa" (dal verbo greco "apokalyptein") - del guardare e del far vedere le cose. "E vidi cielo nuovo e terra nuova" (Ap. 21,1), recita l’"Apocalisse di Giovanni". E' la genesi di questo nuovo "modo di vedere" che Fino alla fine del mondo racconta. A fianco della parola che salva vi è uno sguardo che illumina le cose senza distruggerle, anzi "salva-guardandole". E' lo sguardo che unisce la madre al bambino, lo sguardo degli amanti e degli angeli, lo sguardo dell'amore, lo sguardo del creatore evocato dalla luce aurorale che rischiara la Terra nella prima inquadratura del film. Allora, ai drogati di sogni che, come Claire, si immergono narcisisticamente nelle immagini e vi si perdono (facile allegoria della moderna "civiltà" dell'immagine digitale-virtuale), Wenders contrappone coloro che riescono a tradurre l'immagine in un atto d'amore che è anche e soprattutto un atto di verità. Qui, forse, la "fine del mondo" coincide con la speranza di un nuovo inizio.

Andrea Tagliapietra

 

MATRIX

Tit.Or. The Matrix
Reg. e Scn. Larry e Andy Wachowski
Fot. Bill Pope
Mont. Zach Staenberg
Mus. Don Davis
Int. e Pers. Keanu Reeves (Neo), Laurence Fishburne (Morhpeus), Carrie-Anne Moss (Trinity), Joe Pantoliano (Cypher), Hugo Weaving (Agente Smith)
Prod. Village Roadshaw/Groucho Film Partnership
Or. USA 1999
Dur. 136’

Matrix, o dell’illusione di realtà. Il virtuale come massimo del visibile (e dell’inganno), e il visibile come apologia dell’invisibile (i movimenti troppo veloci perché l’occhio - anche quello del nemico - li percepisca). L’opera seconda dei formidabili Wachowski Brothers, dopo il thriller lesbico Bound torbido inganno, è una riflessione cinica e spietata sul tema del falso come "peggiore degli orizzonti possibili", e sul potere che il cinema ha di smascherare questo falso simulando la più perfetta parvenza di reale. È il rovesciamento di Tron di Lisberger (profetico, ma tradizionale nello schema "umani in missione nel computer per combattere il male") e un’anticipazione del cupissimo eXistenZ cronenberghiano. Ovvero, si postula che il mondo in cui viviamo non esista. Noi stessi non esistiamo. Tutto è frutto dell’inganno di un computer che ha vinto la sua piccola battaglia con il genere umano e ora lo considera alla stregua di un virus da estirpare. Per questo ha creato Matrix, gigantesco mondo parallelo strettamente sorvegliato, dove la "preda" può essere coltivata solo per garantire illimitata energia ai dominatori.
A combattere questo penoso ma impeccabile surrogato di realtà, un manipolo di resistenti (ovvero di "hackers", pirati informatici che sabotano la perfezione del computer per reintrodurre i sacri concetti di errore e di imprevedibile) che trovano in un frustrato programmatore "l’Eletto" prescelto, secondo l’oracolo, per dissipare i loro incubi e restituir loro il libero arbitrio.
Se il tema ha smisurate ambizioni metafisiche, mescolando con disinvoltura filosofia, mitologia, sacre scritture e violenza, lo svolgimento è una sfida ai confini della percezione che si appropria di svariate istanze: il cinema di arti marziali, la fantascienza apocalittica alla
Terminator, i western di Leone e i film di John Woo. Da questi ultimi due, in particolare, i Wachowski riescono ad ereditare e a sintetizzare due tendenze opposte: la dilatazione estrema del tempo e la sua innaturale, fulminante accelerazione. In ambedue i casi, "forzando" lo sguardo ad adattarsi a procedure differenziate (si va dalla digital imaging alle vecchie funi invisibili) per precipitare comunque in un colossale inganno, di cui il film è ad un tempo metafora e disvelamento. "Visionario" assume, dunque, per una volta valore letterale e nello stesso tempo ambiguo: più si cerca di vedere più si è ingannati, più l’inganno è perfetto e più ci si illude di aver visto.

Roberto Pugliese

 

BLUE

Tit. Or. Idem
Reg. Sogg. Scn.
Derek Jarman
Mus. Simon Fisher Turner
Mus. Agg. Brian Eno ("Triennale"), Karol Szymanowski ("Scheherazade" da The Masques), The King of Luxembourg & Marden Hill ("Summertime"), Coil & Danny Hide ("Disco Hospital"), Vini Reilly ("Fermina"), Erik Satie ("Gnossiennes")
Suo. Paul Hamblin, Markus Dravius
Sound Des. Marvin Black
Trad. It. Vincenzo Vergini
Dir. Dopp. Elisabetta Bucciarelli
Voci Ed. It. Walter Maestosi (John Quentin), Francesco Carnelutti (Nigel Terry), Massimo de Rossi (Derek Jarman), Carla Cassola (Tilda Swinton)
Prod. Basilisk Communications/ Uplink in collaborazione con Channel 4 Television/ Arts Council of Great Britain/Opal/BBC Radio 3
Pr. James Mackay e Takashi Asai
Or. Gran Bretagna 1993
Dur. 76'

Ultima opera di Derek Jarman, morto di Aids nel febbraio del 1994, Blue è un caso limite del cinema, oltre il quale non è francamente pensabile andare. Il film porta infatti alle conseguenze più estreme una riflessione sulla comunicazione e sulla percezione visiva, se non sull’essenza stessa del vedere, avviando il cinema nella direzione dell’astrattismo pittorico.
Il progetto di
Blue affonda le radici già nel 1987, sull’entusiasmo per la pittura del francese Yves Klein, il quale fece del blu il suo unico colore per una "ricerca dell’indefinibile in pittura"; in seguito Jarman pensò però di farne un film sull’Aids, collegato al proprio diario del soggiorno in ospedale. Quasi cieco per la malattia, Jarman si rifugiò in un mondo interiore (un mondo del quale Novalis disse: "Così intimo, così segreto tanto che si vorrebbe vivere interamente in esso"), i cui sogni e le cui disillusioni trovarono sfogo in quel giardino di Prospect Cottage in cui visse gli ultimi anni della sua vita - un giardino eletto a microcosmo capace di riassumere in sé la quintessenza dell’universo - e nel mondo dei colori, ai quali dedicò uno splendido libro, Chroma.
Per tutti i 76 minuti del film, lo schermo è imperturbabilmente, monocordemente blu, di un blu omogeneo, intenso e pieno, di una tonalità ricercata espressamente dal regista. La narrazione è così affidata alle parole recitate da quattro voci, tra cui lo stesso regista, e ad un'efficacissima, pregnante colonna sonora (una delicata musica d’ambiente di Fisher Turner mista a canzoni, grida, rumori, voci). Il testo del film, slegato ma sempre acuto ed emozionante, si snoda attraverso riflessioni, amare ed incisive, sulla malattia, che evidenziano come essa muti profondamente i rapporti con se stessi, con gli altri, col proprio corpo e con la propria mente. Ma sa essere anche beffardamente sardonico, nella sua tragicità, quando racconta in una sorda litania i devastanti effetti collaterali dei medicinali utilizzati. Un percorso interiore, antiretorico e carico d’umanità, che trova in quel "blu" un totale, fatale e acquietante approdo, giacché quello che è il colore del mare, del cielo, dell'universo, dell'infinito, è anche il porto sereno della speranza. Continuamente ricordato in tante sue manifestazioni, il blu è un etereo orizzonte, una soglia tra la vita e l'aldilà in cui la straziante voglia di vivere viene a patti con uno stoico, dignitoso senso della morte. Complice e quasi ipnotizzato dalla musica e dalla seduzione delle voci, lo spettatore poco alla volta entra nel gioco del regista, che si limita a suggerire - e non più a imporre - delle immagini: così quel lenzuolo dalla piatta campitura blu, sempre identico a se stesso, vuoto come una tela su cui dipingere, si riempie magicamente delle immagini evocate.

Vincenzo Patanè

Giorgione Movie d’essai - sala B
Cannaregio 4612 , Venezia
Info: 041.5226298

Biglietti interi L. 10.000 Ridotti L. 8.000

Giovedì 6 aprile ore 17.30 / 19.30 / 21.30
Il pianeta azzurro (1982) di Franco Piavoli

Giovedì 13 aprile ore 17.30 / 19.30 / 21.30
Il pianeta selvaggio (La planète sauvage, 1973) di René Laloux

Giovedì 20 aprile ore 17.30 / 19.30 / 21.30
Koyaanisqatsi (1983) di Godfrey Reggio

Giovedì 27 aprile ore 17.00 / 19.15 / 21.30
Solaris (Soljaris, 1972) di Andrej Tarkovskij

Giovedì 4 maggio ore 17.00 / 19.15 / 21.30
Blade Runner - The Director’s Cut (1991) di Ridley Scott

Giovedì 11 maggio ore 18.30 / 21.30
Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991) di Wim Wenders

Giovedì 18 maggio ore 18.30 / 21.30
Matrix (The Matrix, 1999) di A. & L. Wachowski

Giovedì 25 maggio ore 17.30 / 19.30 / 21.30
Blue (1993) di Derek Jarman

 

Cinema Edera - Treviso
Via Radaelli, 14
Info: 0422.300224

Biglietti interi L. 9.000 Ridotti L. 7.000

Giovedì 6 aprile ore 20.00 / 22.00
Il pianeta selvaggio (La planète sauvage, 1973) di René Laloux

Martedì 11 aprile ore 20.00 / 22.00
Koyaanisqatsi (1983) di Godfrey Reggio

Martedì 18 aprile ore 20.00 / 22.00
Il pianeta azzurro (1982) di Franco Piavoli

Martedì 2 maggio ore 19.30 / 22.00
Solaris (Soljaris, 1972) di Andrej Tarkovskij

Martedì 9 maggio ore 19.30 / 22.00
Blade Runner - The Director’s Cut (1991) di Ridley Scott

Martedì 16 maggio ore 19.00 / 22.00
Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991) di Wim Wenders

Martedì 23 maggio ore 19.30 / 22.00
Matrix (The Matrix, 1999) di A. & L. Wachowski

Martedì 30 maggio ore 20.00 / 22.00
Blue (1993) di Derek Jarman

Cinema Torresino
Padova via del Torresino, 2
Info: 049.8758270
spettacolo unico ore 21.00


circolo The Last Tycoon
(tessera sociale L. 6.000)
Biglietti interi L. 8.000, ridotti L. 6.000, abbonati L. 7.000

 

Martedì 11 aprile
Il pianeta azzurro (1982) di Franco Piavoli

Martedì 18 aprile
Il pianeta selvaggio (La planète sauvage, 1973) di René Laloux

Giovedì 27 aprile
Koyaanisqatsi (1983) di Godfrey Reggio

Giovedì 4 maggio
Solaris (Soljaris, 1972) di Andrej Tarkovskij

Giovedì 11 maggio
Blade Runner - The Director’s Cut (1991) di Ridley Scott

Giovedì 18 maggio
Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991) di Wim Wenders

Giovedì 25 maggio
Matrix (The Matrix, 1999) di A. & L. Wachowski

Giovedì 1 giungo
Blue (1993) di Derek Jarman

 

La rassegna COSMICA. Gli infiniti mondi del visibile cinematografico è promossa da Palazzo Grassi e organizzata da Circuito Cinema Comunale del Comune di Venezia in collaborazione con Cinema Edera di Treviso e Cinema Torresino di Padova nell’ambito della mostra Cosmos. Da Goya a de Chirico, da Friedrich a Kiefer - L’arte alla scoperta dell’infinito, nella quale sono esposte circa 400 opere, in corso a Venezia, a Palazzo Grassi, fino al 23 luglio 2000 (orario continuato 10 - 19. La cassa chiude alle 18. Prenotazione dei biglietti ad ogni sportello della Banca nazionale del Lavoro).