Assolutamente
meritato il premio per la sezione
Orizzonti
conferito al bellissimo e toccante documentario di
Spike Lee sulla
tragedia che l’uragano Katrina ha abbattuto sulla città di New
Orleans.
Doveva essere uno speciale di due ore per la rete televisiva HBO e si
è trasformato in un film di 240 minuti: un requiem in quattro atti,
come recita il titolo. Pur nascendo infatti come documentario, la
sapiente regia con cui Lee ha montato le immagini della città prima e
dopo il disastro e le interviste ai suoi abitanti ha creato qualcosa
che va al di là di una semplice testimonianza documentaria. Esiste un
vero sviluppo narrativo in quanto i quattro atti corrispondono al
progressivo delinearsi di fasi diverse della tragedia, dalle quali
emerge chiaramente come alla furia degli elementi naturali si siano
sovrapposte le responsabilità civili.
Il film si apre sulle note di Do you Know what it means to
miss New Orleans di Louis Armstrong che
accompagnano immagini di repertorio sulla città e su quello che essa
rappresenta nell’immaginario di tutti noi: the Big Easy, la città del
jazz, del Mardì Gras, del quartiere francese, della cultura creola e
cajun, alternate con le prime immagini girate dopo l’uragano: bambini
soccorsi dagli elicotteri, cadaveri galleggianti, case distrutte.
Successivamente cominciano a prendere la parola i protagonisti
sopravvissuti alla tragedia, che viene così a delinearsi come un
dramma reale e non come fiction televisiva. Sono più di cento le
interviste che Lee ha filmato dal dicembre 2005, tornando più volte in
Louisiana. Dallo schermo ci parlano i politici: il sindaco nero Ray
Nagin, che ammette di non aver avuto il coraggio di far evacuare la
città, nonostante fosse stato preavvertito della forza dell’uragano,
il governatore Kathleen Blanco, ingegneri, architetti, tecnici,
responsabili della protezione civile, che dimostrano il totale
fallimento di un sistema impreparato ad affrontare tali emergenze,
personaggi famosi come gli attori Harry Belafonte e Sean Penn che
vediamo impegnato nei soccorsi e i musicisti Terence Blanchard e
Wynton Marsalis, ma soprattutto la gente comune, nera prevalentemente,
ma anche bianca.
Tutti hanno delle storie drammatiche da raccontare: la donna che,
abitando vicino al lago Pontchartrain ha sentito il rumore tremendo
della chiatta che, trascinata contro la diga , ha aperto la prima
falla, il giovane che ha assistito la vecchia madre in carrozzella e
quando è morta ha dovuto abbandonarne il cadavere, il bambino
disperato perché non riusciva a trovare le medicine per la madre,
coloro che si erano rifugiati al Superdom, seguendo le indicazioni
ufficiali, e che si sono visti crollare il tetto addosso: un grande
affresco corale che testimonia la condizione del tutto indifesa della
popolazione. Man mano che il film procede emergono però dai racconti
particolari che forse i media non avevano messo in luce: una donna
narra che quando, visto che i soccorsi non arrivavano, hanno tentato
di abbandonare la città, sono stati respinti dall’esercito e
ricacciati indietro in una città dove non esistevano più né viveri né
acqua potabile né medicine; un’altra racconta che, quando finalmente è
stata decisa l’evacuazione, sono stati tutti ammassati all’aeroporto
di New Orleans e fatti partire a casaccio con la conseguenza di
disperdere intere famiglie spedite singolarmente in diverse città
degli Stati Uniti. E chi ha voluto restare non ha avuto nessun aiuto.
Il tutto tra uno spalleggiarsi di responsabilità da parte delle
autorità competenti, a proposito delle quali resterà memorabile
l’intervista al capo della protezione civile.
“Quello che è successo a New Orleans è un atto criminale” ha
dichiarato Spike Lee e con il suo film ce l’ha saputo dimostrare.
All’anteprima americana, il sedici agosto scorso, allo stadio Coliseum,
che un anno fa offriva riparo a migliaia di rifugiati, c’erano
sedicimila persone, in lacrime. Ma chiunque si sia lasciato
trasportare in questo viaggio nell’orrore non dimenticherà mai la
faccia di quel tal bambino o di quel tal vecchio, ma soprattutto non
dimenticherà le bellissime carrellate a pelo d’acqua sui cadaveri
gonfi degli annegati lasciati per settimane a galleggiare nella melma.
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