Non siamo mai stati grandi estimatori di Roberto
Benigni. Sbiadito il ricordo di
Berlinguer ti voglio bene (1977),
apprezzato Non ci resta che piangere principalmente per la coabitazione
autoriale di Massimo Troisi, da Il piccolo diavolo a
Il mostro (passando per
Johnny Stecchino) la comicità del Roberto nazionale
ci è sempre sembrata un po' smargiassa, talvolta sguaiata, cinematograficamente
mediocre. Ora,
di fronte a
La vita è bella, c'è l'impressione che
la gaglioffaggine ridanciana sia infine rientrata e che la voglia di comunicare
col pubblico si sia concretizzata in un'espressività sobria e narrativamente
compiuta, anche se, a livello di linguaggio filmico, ancora debole.
La pellicola è strutturata, con evidente dicotomia, in due "tempi".
Il primo è più affine al Benigni vecchio stampo, con gag
sopra le righe, affidate alla comicità gestuale delle situazioni
ed alla verve dirompente dell'attore toscano. La vicenda lo vede, nei panni
di Guido, approdare in città dalla campagna, con l'intenzione di
aprire una libreria. Si adatta intanto a fare il cameriere in un grande
albergo, concentrando il tempo libero su una giovane maestra (Nicoletta
Braschi) che scoprirà promessa sposa ad un odioso burocrate fascista.
Ma poiché la cerimonia di fidanzamento è organizzata proprio
nell'hotel di Guido, sarà per lui l'occasione per dichiararle il
suo amore e per portarla via con sé, sotto gli occhi esterrefatti
dei convitati, in sella ad un cavallo "ebreo", che qualcuno,
per spregio, ha dipinto di verde...
Nel secondo tempo l'intrusione delle tensioni antisemitiche dell'Italia
anni '40 riconfigura l'atmosfera del racconto e conduce la vicenda ad un
sorridente epilogo, tra la tragedia e la fiaba. Il
sereno vivere di Guido (che nel frattempo ha ottenuto la sua libreria,
sposato Dora ed è felice padre di un ragazzino, Giosuè, di
una decina d'anni) è infatti minato dall'incombere dell'olocausto.
I tre vengono deportati in un campo di concentramento, ma in quel luogo
senza speranza, segnato dal degrado fisico e psicologico, Guido-Benigni
dà il meglio di sé ed inventa un grottesco "gioco a
premi" per tener lontano dal piccolo Giosuè lo spettro della
disperazione e della morte. Un'idea di delicata poesia umanitaria e di
grande efficacia comunicativa. Non c'è amarezza in La vita è
bella, c'è la beata (in)coscienza che il sorriso della fantasia
può esorcizzare anche il dramma.
Corredato da una serie di sottili battute che scherzano, con garbato
sarcasmo, sulle vergogne e le atrocità dell'olocausto, il film
di Benigni è un vero, amabile regalo di Natale, certo ingenuo
e lezioso (l'atmosfera scenografica "felliniana" è
ridondante, il ritmo e le scelte
stilistiche lasciano talvolta a desiderare) ma forse esplicitamente
dedicato ad un pubblico con spirito semplice e disponibile. Come si
diceva un tempo, un classico film per famiglie.
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