Nell’estremo
nord dell’Albania, ai confini del Kossovo, la condizione della donna
nella società è (come da noi in altri tempi e ancora oggi sotto altri
cieli) di totale soggezione all’uomo: moglie e serva allo stesso
tempo, non può guidare, uscire da sola, lavorare, entrare in un bar,
scegliersi autonomamente un marito. Tutto è regolato da un antico
codice chiamato Kanun (canone?). L’unica via d’uscita è che la donna,
con un solenne atto di fronte alla popolazione maschile del villaggio,
dichiari di voler rimanere per sempre illibata, cioè di rinunziare
alla sua femminilità, prima di tutto la possibilità di sposarsi e di
avere figli. Scelga, cioè, di diventare una Vergine Giurata, la
Sworn Virgin del titolo. Assumerà
allora una nuova identità maschile, nel nome, nel comportamento e nel
vestire, e nessuno potrà più imporle niente: sarà libera appunto come
un uomo.
E’ così che Hana, la protagonista del film di Laura Bispuri
Vergine Giurata,
unico film italiano in concorso a Berlino, inizia una nuova vita come
Mark. Ma gli anni passano, l’identità maschile diventa una prigione
insopportabile: il protagonista decide di partire per l’Italia dove,
nel frattempo, si è trasferita, o meglio è fuggita, la cugina Lila.
Sarà qui, nel confronto con una realtà più aperta e, soprattutto, con
la nipote adolescente Katrina che si svolgerà il suo faticoso cammino
di riconquista della femminilità perduta e di riappropriazione di
quella parte di sé di cui si era volontariamente mutilata.
Il film è tutto un continuo avanti e indietro tra le strazianti scene
della gelida realtà albanese, per altro quelle meno risolte ed
efficaci, e l’altrettanto difficile scontro con la pseudo modernità
italiana. In maniera forse un po’ didascalica (Hana a bocca aperta
davanti a un negozio di lingerie o esterrefatta dall’incontro con le
amiche della nipote che, tacchi alti, abiti da sera e rossetti
sgargianti, vanno a una festa), la Bispuri ci dà il suo messaggio:
anche senza il Kanun le donne sono, in fin dei conti, imbustate,
ingabbiate e prigioniere di un’idea di perfezione e bellezza
altrettanto assurda. La storia ha un suo esile appeal, il cammino di
Mark/Hana per la riconquista della sua identità sarà lungo, i
risultati incerti...
Liberamente tratto da un romanzo di Elvira Dones, a suo tempo
pubblicato da Feltrinelli, il film ha richiesto due anni di lavoro in
loco, con interviste alle donne dei villaggi, le vere burnesha
(“donne-uomo”, così sono chiamate). Alba Rohrwacher, dopo
Via Castellana Bandiera,
Le meraviglie
e
Hungry hearts,
non smentisce la sua vocazione per questi personaggi complessi:
capelli corti, jeans sdruciti, sguardo perso, è estremamente a suo
agio in questa incarnazione sofferta e al limite, per noi, della
credibilità.
La platea di Berlino, città aperta quante altre mai alle tematiche
delle identità sociali e sessuali, non ha lesinato gli applausi. A
noi, tutto sommato, è apparso poco riuscito, indefinito, gracile come
la sua protagonista. Difficile pensare ad un successo di pubblico in
Italia...
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