Saverio
Costanzo, quattro anni dopo
La solitudine dei numeri primi,
presenta alla Mostra del Cinema di Venezia
Hungry Hearts, film che conferma, e non solo per l'ambientazione, come la lunga formazione del
regista negli USA lo renda immune dal provincialismo di certo cinema
italiano. L'incipit è fulminante: i due giovani protagonisti rimangono chiusi
nel microscopico bagno di un ristorante cinese di New York e,
condividendo miasmi e claustrofobia, entrano in una intimità che
prelude all'amore. Tra Mina (Alba Rohrvacher), italiana che lavora
in ambasciata, e Jude (Adam Driver), giovane ingegnere americano,
c'è intesa: l'arrivo inaspettato di un figlio mette in difficoltà lei,
ma Jude non ha dubbi e i due si sposano. Mina inizia a concentrare sul
figlio aspettative straordinarie (una veggente le ha predetto che
sarà un bambino speciale, un bambino indaco) trasformando il suo credo
alimentare (è vegana) in una catena di fobie: l'appartamento in cui i
tre vivono diventa una fortezza iperprotettiva chiusa al mondo e
l'alimentazione del figlio (che per essere purificato viene nutrito a
semi e vegetali) diventa il terreno di lotta tra i due genitori.
Quando la malnutrizione del piccolo minaccia la sua sopravvivenza, lo
scontro coinvolge anche la madre di Jude , con svolte senza ritorno.
Saverio Costanzo affronta l'adattamento del romanzo Il bambino
indaco di Marco Franzoso scegliendo la chiave del genere thriller
con sfumature horror, e riesce nel suo intento. Usando bene la
scenografia (gli arredi parlano come in un film di
Hitchcock) e le
inquadrature (colpiscono i primi piani intensi dei protagonisti), il
regista crea uno spazio filmico inquietante in cui gli sguardi e le
parole, nella loro banalità, riescono a mettere i brividi. L'intento
diventa forse troppo esplicito con l'uso di un obiettivo deformante ,
ma Rosmary Baby non è certo l'unica fonte citata dal regista.
Si fa notare e può far discutere la colonna sonora, curata da Nicola
Piovani. Al di là delle parti più convenzionali, con sonorità tipiche
del genere, le musiche puntano ad un forte effetto di enfasi o di
dissonanza rispetto alle immagini: non tutte le scelte sono felici, ,
ma certo raggiungono l'obiettivo di rendere disturbanti anche le scene
più apparentemente serene.
Certo l'opera poggia in buona parte sull' ottima prova dei due attori,
premiati entrambi a Venezia con la Coppa Volpi per la migliore
interpretazione. Se Adam Driver apporta al film soprattutto la
naturalezza e la freschezza di un volto non stereotipato, Alba
Rohrvacher riesce a rappresentare bene la passività aggressiva di Mina,
lasciando sempre aperta la strada alla credibilità, se non alla
comprensibilità, del personaggio.
Il punto debole del film, ma potrebbe essere anche il suo pregio, sta
forse nell'oscillare tra due strade nell'interpretazione della
vicenda. Costanzo sembra interessato a rappresentare,
nell'estremizzazione della situazione, la dinamica attraverso cui i
conflitti della quotidianità vanno allontanando e disgregando una
coppia. Nella prima parte sentiamo come spettatori i dubbi, la
fragilità, il disagio nello stare in mezzo agli altri di Mina, e
questo ci porta ad evidenziare il mancato ascolto di tutto ciò da
parte di Jude. Dietro l’estremità del comportamento di Mina, che
interroga veggenti e si affida alla alimentazione vegana come ad una
dottrina salvifica, c’è evidentemente una fragilità , un cumulo di
paura che non è riuscita a comunicare o che nessuno ha ascoltato o
compreso. C’è una chiusura in un proprio mondo di riti e
compensazioni, cui l’altro diventa sempre più estraneo, fino a
trasformarsi nel nemico. Nella seconda parte del film la
focalizzazione si sposta però su Jude e noi sentiamo la sua
disperazione e la sua impotenza di fronte alla impermeabilità di Mina,
alla follia che avanza. La ragione e l'affetto appaiono deboli di
fronte a una forma di amore malato, che può diventare feroce. E il
finale è doppiamente emblematico in questo senso.
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