Uomini di Dio
(Des hommes et des dieux)
Xavier Beauvois -
Francia
2010 -
2h |
|
Gran Premio della Giuria al 63° Festival di CANNES |
Non
siamo succubi dei film che si pretendono metaforici e metafisici (magari
sonnolenti) solo per intimidire lo spettatore. Sarà dunque più facile
crederci se consideriamo straordinario
Uomini di Dio,
film arduo e austero, tessuto di vibrante spiritualità e cadenzato dai
silenzi, preghiere, canti e umili lavori quotidiani di una comunità di
monaci. Il francese Xavier Beauvois
(Nord,
Non dimenticarti che stai per morire)
non appartiene alla schiera dei registi snob e il suo è un segno
stilistico limpido, un tentativo sincero e appassionato d'illuminare in
termini storici e universali alcuni dei tragici conflitti che dilaniano la
convivenza degli uomini con gli altri uomini. Ambientato a metà anni '60,
nel clou di uno dei più feroci scontri tra governo algerino e terrorismo
islamico, il film rievoca i tre anni precedenti la strage del monastero di Tibhirine, quando i trappisti che si erano rifiutati di lasciare il paese
in preda alla violenza furono rapiti e quasi tutti massacrati (furono
ritrovate solo sette teste mozzate). Questi santi uomini abituati a
praticare la più operosa e solidale fraternità con gli abitanti musulmani
del villaggio diventeranno martiri senza esibire fanatismo, mantenendo
salda e nello stesso tempo semplice, naturale la loro fede a dispetto
della faida interreligiosa e contro qualsiasi opzione integralista. Un
peso decisivo che fa pendere la bilancia del film verso la tradizione
francese dei Bresson e Pialat lo assumono le recitazioni: capeggiati dal
padre Christian di Lambert Wilson e il padre Luc di Michael Lonsdale gli
attori conferiscono ai religiosi una gamma affascinante di prerogative
umane (paura, solitudine, vecchiaia, malattia, scetticismo) in grado,
però, di nutrire al massimo grado la percezione del Divino. Il metodo di
Beauvois esclude la morbosità e, anziché i dettagli dell'eccidio (ancora
avvolti dal sospetto di coinvolgimento dei servizi segreti governativi),
mostra gli ostaggi che marciano verso le montagne mentre le candide
tonache si dissolvono nella coltre di neve. Ed è icastica come in un
western la battuta-epigrafe di Wilson «Non temo la morte, sono un uomo
libero». |
Valerio Caprara - Il Mattino |
Erano
sette ma non erano samurai. Erano monaci e non sapevano che sarebbero
diventati martiri. In realtà non erano nemmeno sette, erano nove e
celavano sotto il saio età e storie molto diverse, ma quando gli
integralisti vennero a prenderli due riuscirono a nascondersi e così le
vittime furono sette, un numero ricorrente nelle mitologie sacre e
profane. I sette monaci di Tibhirine, Algeria. Uccisi fra il 26 marzo
1996, data del loro rapimento, e il 30 maggio, quando vennero ritrovati i
loro resti. Solo le teste, non i corpi, come si sarebbe scoperto grazie
all'insistenza di un vescovo (???) che impose alle autorità di riaprire le
bare.
Come sia andata davvero forse non lo sapremo mai, fino a un anno fa sul
caso pesava il segreto di Stato. Per il governo algerino il massacro fu
opera degli integralisti di Djamel Zitouni. Per altri Zitouni era
manipolato dai servizi segreti. O forse i monaci furono vittime casuali di
un bombardamento dell'esercito algerino. Ma tutto questo nel bellissimo
film di Xavier Beauvois, già visto in Francia da quasi 3 milioni di
persone, non c'è. In compenso c'è qualcosa di molto più sfumato di
un'inchiesta giudiziaria, reso con una forza, una sobrietà, una verità
d'accenti che sono merce rara nel cinema d'oggi.
C'è la vita quotidiana di quegli uomini che avevano scelto un paese
islamico per la loro missione. C'è il loro impegno dentro e fuori dal
monastero, le preghiere in latino e in arabo, il lavoro con gli abitanti
di quel paesino fra i monti dell'Atlante, l'incanto di un paesaggio così
vasto e incontaminato da generare insieme contentezza e sconcerto, il
monaco dottore (fantastico Michel Lonsdale) che cura gratuitamente
chiunque ne abbia bisogno (compresi i terroristi, certo). E poi lo
sgomento che si impadronisce dei monaci quando gli integralisti iniziano a
insanguinare la regione, e capiscono che come cristiani anche loro sono
bersagli esemplari; l'attesa trepidante di un incontro che sperano non
avvenga mai; la scoperta non meno terribile che perfino in quell'incontro
possono trovare modo di confermare, chiarire, rafforzare le loro scelte.
Come dimostra la scena chiave del primo faccia a faccia fra i terroristi
in armi e il priore (un magnifico Lambert Wilson). Che tiene loro testa in
una trattativa convulsa («Sì che ho la scelta!») guadagnandosi il
loro rispetto e insieme l'obbligo a non essere da meno.
I (rari) detrattori rimproverano a Beauvois di aver trascurato il contesto
storico dell'ex-colonia e le vicende che stavano dietro ogni monaco (così
belle che meriterebbero un film a parte). Ma lo sguardo limpido e fermo
con cui seguiamo l'attesa dei monaci, la ridda di sentimenti umanissimi e
contraddittori, il dibattito insieme pubblico e interiore che infine
decide tutti a restare, hanno la forza di un film di Dreyer e la
schiettezza, l'umanità, il senso del gruppo di
John Ford. Un'esperienza
rara. E non solo al cinema. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
promo |
Asserragliati
in un eremo sulle montagne algerine, nove «monaci senza frontiere»
si chiedono se resistere alla violenza fondamentalista islamica o
scappare. Sapranno affrontare con dignità "mistica" e umana il
loro destino... Beauvois con una regia asciutta e appassionata
richiama alla memoria Rossellini, evoca il magistero di Bresson e
filma la disperazione degli uomini di fede con un rigore quasi
dreyeriano. Ispirato a storia vera, nobile per trama, assunto,
forma e morale un film che appassiona e tocca il cuore, ma non rinuncia a
momenti di interiore, sofferta e silenziosa riflessione. |