Quando
ci si reca ad un festival, uno dei giochi più divertenti è quello
della ricerca di fili conduttori, assonanze, sintonie tra i film
presenti. Spesso è un’attività a cui sono dediti i coloristi (“Il
tema di Cannes XY è il sesso! Questa volta suggerito, non esplicito
come a Cannes XX!”) sui quotidiani maggiori, ma anche il comune
cinefilo può divertirsi ad andare a caccia di simmetrie di qualunque
genere, non di rado con un fine che potremmo definire “nobile”:
decifrare quello spirito del tempo che è in grado di restituire un
cinema prodotto in un preciso momento storico e mostrato in un preciso
luogo, in un intervallo di tempo definito.
The Humbling,
presentato Fuori Concorso a Venezia 71, è un film che registra curiose
analogie tematiche e strutturali con
Birdman di Alejandro González Iñárritu: un uomo, un
tempo celebre, ora solo in mezzo ad un palco, alle prese con il dramma
del proprio declino. Nel film di Iñárritu è un ex divo del cinema di
cassetta a cercare di tornare alla ribalta; Simon Axler, protagonista
di
The Humbling, non è stato invece la star di un mondo effimero
come quello dello show business: è stato un vero attore, un Laurence
Olivier, un John Gielgud, scivolato però in una profonda crisi
personale che coincide con la senescenza, e con tutti i problemi che
essa si porta dietro. L’ispirazione per il personaggio di Axler
proviene dal romanzo omonimo (2009) di Philip Roth: eppure, piuttosto
che a Roth e al suo L’umiliazione, guardando il film di Levinson
viene da pensare ad Al Pacino (vero nume tutelare del film, essendo
proprietario dei diritti del libro) e alla sua quasi cinquantennale
carriera. Dedito negli ultimi anni a gigioneggianti lavori alimentari
sul grande schermo, Pacino continua una appassionatissima carriera sul
palcoscenico, come testimoniato anche dai suoi documentari
Riccardo III e il recente
Wilde Salome. E’ questo elevato grado di
identificazione a trascinare dentro la storia di perdita di sé di
The Humbling: toccante quando parla di deriva personale, ma comunque non
morale, pudico nell’approcciarsi con un’ironia lieve al racconto di
quel che resta dopo una vita passata a fingere di essere qualcun
altro. A sorprendere è anche il tocco della regia: l’ultrasettantenne
Levinson è sempre stato un regista greve e incapace di mezzi toni, ma
con l’età ha almeno acquisito la capacità di rispettare i suoi
personaggi, e stavolta è in grado di costruire con rispetto un film
attorno a Pacino/Axler senza svaccamenti di sorta. Probabilmente i
suoi meriti sono da condividere con un terzo grande vecchio del cinema
americano, Buck Henry che, ultraottantenne, firma una sceneggiatura
che una volta si sarebbe definita “di ferro”.
In un ipotetico confronto con
Birdman, il film di Levinson appare
senz’altro più “tradizionale” (ammesso che esista questa categoria
riferita alla Settima Arte), ma più riuscito, e sicuramente più
toccante. Dove Iñárritu mette un piano acrobatico con invisibili tagli
di montaggio rimaneggiati al computer,
The Humbling risponde con un
anziano leone imbevuto di palcoscenico, sprofondato in un divano, che
ci mostra il suo dolore fingendo di non provarne (e il finale sul
palcoscenico, in cui la finzione scricchiola, è magnifico).
La platea di Venezia 71 ha dimostrato di apprezzare meno questa
“tradizione”: per questo invitiamo ad una immediata riscoperta.
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