Ormai è fin troppo
chiaro. Il monumento che il nuovo millennio sta costruendo intorno ai
Beatles è colossale, smisurato, di gran lunga superiore a ogni
aspettativa. E dire che, come racconta Richard Lester nel delizioso
Eight Days a Week
di Ron Howard , quando la United Artists gli commissionò il primo film
dedicato al gruppo, gli chiese un prodotto buono, ma veloce e a basso
costo. L’importante era farlo uscire entro luglio (era il 1964) perché
molto probabilmente i Beatles sarebbero finiti con l’estate. Mai
previsione fu più errata, ovviamente, e il film,
A
Hard Day’s Night,
fu solo uno dei tanti capitoli della più grande storia musicale mai
raccontata, eppure erano in molti in quel momento apre vedere che quella
folle e incandescente meteora potesse svanire da un momento all’altro.
Quanto durerà? Si domandavano in molti, e almeno in parte se lo chiedevano
anche gli stessi Beatles. Del resto un fenomeno del genere non si era mai
visto prima, nessuno era preparato, nessuno sapeva collocarlo, prevedendo
il seguito della storia.
Il film racconta con dovizia di particolari, con immagini già note e altre
inedite, l’euforia dei primi anni, di quella meravigliosa e irripetibile
“epidemia” (come la chiamavano, preoccupati, i ben pensanti) che aveva
contagiato l’intero universo giovanile. Ci ricorda e descrive le
incredibili, vertiginose proporzioni del fenomeno, spiega perché la
meteora non svanì nello spazio di una stagione e la spiegazione è allo
stesso tempo semplice e struggente. I Beatles ce l’hanno fatta perché
erano brave persone, intelligenti ed empatiche, perché non si sono mai
accontentati di quello che avevano appena realizzato, perché sono stati
capaci di voltare pagina decine di volte, nel giro di pochissimi anni,
perché erano uniti e si sostenevano l’uno con l’altro.
Facile, potremmo dire, fare un bel film avendo a disposizione quello
scintillante materiale, che sappiamo bene essere irresistibile, da
qualsiasi angolazione lo si prenda, materiale ottenuto col benestare degli
stessi Beatles: ovvero dei due sopravvissuti, Ringo e Paul, e delle vedove
Harrison e Lennon, anzi prodotto dalla Apple, con autostrade aperte a ogni
indagine storica. Ma Howard ci mette passione, è onesto almeno quanto la
storia che vuole raccontare, e in un certo senso mette ordine in quella
aggrovigliata ma tassa che ha deciso il destino della cultura pop dei
nostri tempi. E lo fa seguendo una sorta di diario di bordo delle
esibizioni dalbvivo, tra urla, pericoli, estasi collettive e il
progressivo estraniamento dei quattro da quella abnorme e insostenibile
pressione. Belle le interviste aggiuntive, soprattutto quelle a Whoopi
Goldberg e alla storica Kitty Oliver che mettono in luce un aspetto meno
analizzato della vicenda, ovvero il ruolo del gruppo nei conflitti
razziali che stavano devastando l’America nel 1964. Erano giovanissimi
working class della periferia inglese eppure quando seppero che in un loro
concerto nel sud degli Stati Uniti, a Jacksonville, sarebbe stato adottato
un sistema segregazionista, dichiararono che questo non sarebbe mai avvenuto
a un loro concerto. E l’ebbero vinta. I neri entrarono liberamente, e per
alcuni di loro fu il primo contatto con i bianchi in pubblico.
Una canzone dopo l’altra, un concerto dopo l’altro, la storia cresce e
sembra disegnare la conquista di un territorio nuovo. Lo spiega Lennon, in
un’intervista del 1975 citata nel film: «La sensazione è che ci fosse
una nave alla scoperta del Nuovo Mondo e che sull’albero maestro ci
fossero i Beatles e dicevano: terra!».
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La
full immersion nei live dei Fab Four dal Cavern Club nel 1963 a Saville
Road nel gennaio del ‘69, cattura sudore, urla e significato di un
fenomeno culturale pop che ha fatto la storia. Uno sguardo gentile
sull’umanità del quartetto, su quell’essere corpi/voce/evento perenne,
quel diventare puntini piccoli piccoli in mezzo ad una folla immensa,
brulicante, sbracciante e feroce di fan.
I live, ossatura drammaturgica del documentario, sono la testimonianza di
Ron Howard su coloro che sfondarono le mura dei teatri e aprirono la
strada al live negli stadi per decine di migliaia di spettatori. Un
continuo rilancio con l’apertura di interi brani, stralci, o anche
soltanto ritornelli suonati e cantati dal vivo, recuperati grazie ad
un’attività di raccolta ed archivio - One Voice, One world – che vede
momenti buffi e concitati, travolgenti e inquietanti, dal palco delle
Filippine a quello, ultimo, del 1966 a Candlestick Park di San Francisco,
donato da una signora allora bambina seduta in prima fila che con un
Super8 riprese anche la discesa finale dal palco di Lennon,
McCartney,
Starr ed Harrison. Tutto in un Dolby Stereo che travolge, singole piste
ripulite digitalmente dove le chitarre di George e John finalmente vivono
di vita completamente propria, e dove Ringo esalta tamburi e soprattutto
piatti dal suo storico trespolo batteria.
La direzione che prende Howard non è però quella della memorabilia tout
court (che c’è, e quando c’è fa lucidare gli occhi), ma di una storia che
attraverso gli exploit mediatici, l’attenzione mondiale e i fari puntati
addosso 24/24 (un singolo ogni tre mesi, un album ogni sei, e tour a
go-go), fa emergere l’alchimia naturale dei ragazzi di Liverpool, il loro
normalissimo, e allo stesso tempo codificabile dalle masse, approccio alla
musica come “divertimento”. L’essere se stessi, battuta pronta e
spontanea, magari irriverente ma sincera, quando poi i decenni a venire ci
avrebbero mostrato eccessi provocatori artificiosi. Apice che si tocca
quando i quattro interpretano con insana leggiadria il film di Richard
Lester,
A
Hard Days Night (1964), gioco, impostura, e mise en abyme, del
fenomeno Beatles, quasi ci fosse bisogno di parodiare popolarità,
ossessione, e quell’inquadratura in controcampo del primo piano di una
ragazzina qualunque che si urla e si tira i capelli al sentire/vedere un
ciuffo di Fab Four.
Ascesa e poi declino attraverso il cinema, paradosso bizzarro quando oggi
è mezzo che non serve quasi più a nulla, che arriva l’anno dopo con
Help! (1965), manifesto creativo della forzatura produttiva,
della parossistica e tarda consumazione di un’eterna epifania. Intanto
Lennon, McCartney, Harrison e Starr hanno conquistato le masse con la
freschezza di accordi e testi immediati, e ora si apprestano alla gloria
eterna.
Beatles: Eight Days a Week è punteggiato di copertine di lp che
ripercorrono carriera e vendite dei Fab Four. Così come Rubber Soul
spiazza fan e critica, l’ottavo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club
Band consacra il mito e sancisce la definitiva ricerca solista dei
quattro. Howard sta lontano da gossip e polemiche, mostra la pazienza di
Brian Epstein e George Martin di fronte alla frattura e ai cambiamenti
sonori del gruppo, non cita mai la signorina Yoko Ono, allunga il percorso
con la polemica rintuzzata da Lennon (una battuta sui Beatles più grandi
di Gesù) che fa andare a rotoli l’ultimo tour americano. Perché al regista
premio Oscar interessa molto di più il lato A della vicenda Beatles (c’è
l’ok di eredi sparsi su royalty e immagini), la magia degli accordi di
Love me do o Ticket to ride, o di quando al Gator Bowl di Jacksonville
l’11 settembre 1964 si misero lì tutti e quattro di fronte alle
telecamere, come fosse un consesso pellerossa, affermando che “la
segregazione razziale non esiste nei nostri concerti”, così neri e bianchi
si mescolarono in una memorabile serata che altrimenti li avrebbe visti
separati in sezioni apposite come sui bus e al ristorante. Del resto
Howard lo ha spiegato più volte in questi mesi di lavorazione: “questo
documentario è dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”. Scarto
temporale, sinfonia visiva,
Beatles – Eight
Days a Week disegna già un suo
simbolico “the end” ben prima delle note di Don’t let me down sul tetto
londinese con John impellicciato, George in pantaloni verdi, Ringo in
impermeabile rosso e Paul barbuto in nero, quando Lennon, pressappoco nel
’64, ancora sorridente e scanzonato, vive con spensieratezza l’esposizione
planetaria e dichiara: “Quando finirà il successo? Beh, ci faremo una
risata”.
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