"Meglio i dolori della pace che l’agonia della guerra"
da Film Tv (Bruno Fornara) |
Buona notizia. Il Wenders di La terra dell’abbondanza" non è quello dei suoi lontani tempi migliori, ma non è neppure quello noioso degli ultimi tempi, guru e predicatore. E’ un Wenders inaspettato, con una visione particolare e personale dell’America: che non è la biblica terra della pienezza dove scorrono latte e miele. Il titolo del film è figura retorica di inversione e antitesi. Nell’America di Downtown Los Angeles, con i poveracci senza casa che dormono sotto i cartoni sui marciapiedi, si incontrano l’invasato e il paranoico Paul e l’idealista e umanitaria Lena. Il film sta in questo triangolo: una città abitata dagli ultimi degli umiliati, un veterano del Vietnam che continua a condurre la sua guerra contro nemici che stanno dappertutto e complottano contro la libertà del suo paese, una giovane donna che ha vissuto in Africa e in Medio Oriente e che adesso, tornata in patria, vuole dedicarsi ai dannati della sua terra. I due sono zio e nipote, non si conoscono, cominciano a sfiorarsi, si trovano insieme a scoprire cosa c’è dietro l’omicidio di un povero pakistano. E dietro non c’è il complotto mondiale che Paul sospetta. C’è soltanto il naufragio casuale di una vita oscura e sfortunata come tante. Wenders si ritrae, lavora su personaggi e luoghi, stringe il quadro, fa dell’America del dopo 11 settembre il paese dell’angosciante attesa di una nuova catastrofe, terra di povertà, di isolamento paranoico e di slanci ideali. Di città spettrali con una Missione come ancoraggio provvisorio e di un deserto con un’altrettanto fantomatica cittadina, quattro baracche, dove le storie finiscono per dissolversi, dove Paul e Lena cominciano a ritrovarsi prima di partire in pellegrinaggio verso Ground Zero. Dice Paul che quel buco nero nel cuore dell’America se lo immaginava più grande. Lena gli chiede di ascoltare il silenzio. E Leonard Cohen canta la "title song". Niente prediche. Ripartire dal poco. Affezionarsi a un’immagine vibrante, come quella di un colibrì magicamente sospeso nell’aria. |
da Il Sole 24 ore (Roberto Escobar) |
Non
c’è niente che non sia come dev’essere, nel reduce dal Vietnam Paul (John
Diehl). Ha quel che si dice le physique du role, il protagonista di
La terra dell’abbondanza.
È elegante quel che basta per stare in un film di Wim Wenders, o almeno
del Wim Wenders dell’ultimo quindicennio (con le belle eccezioni di
Buena Vista Social Club,
del 1998, e di
The Blues - L’anima di un uomo, del
2003).
Per quanto viva tutto il giorno rintanato nel suo furgone, respirando
polvere di strada e fumo di sigaretta, i suoi abiti casual non perdono
quell’aspetto fra il trasandato e il sartoriale che fa la differenza tra
un barbone e un barbone comme il faut. D’altra parte, quanto all’etica,
nel senso della visione del mondo, dei valori, degli ideali, Wenders e il
co-sceneggiatore Michael Meredith non si fanno mancare niente. A partire
da un soggetto di Scott Derrickson e dello stesso Wenders, i due prendono
lo stereotipo secondo cui gli Usa sono il luogo più felice del nostro
povero mondo, e lo capovolgono. Così, la terra dell’abbondanza, appunto,
si popola di senza tetto e barboni (questa volta, però, senza accessori
sartoriali). Forse preoccupati di non sfigurare nel confronto con
Fahrenheit 9/11 ma privi della puntuta forza polemica di Michael Moore, e
della sua irruenza coraggiosa‚ i due sgombrano il campo da ogni
sfumatura. Il plenty. del titolo originale diventa così un susseguirsi di
miseria, una landa popolata di homeless. |
da Sette (Claudio Carabba) |
Wim
Wenders, il tedesco solitario legato all’America dall’odio e dall’amore,
torna sui tetti davanti al «Million Dollar Hotel», il rifugio dei
vagabondi di Los Angeles. La fame e la paura hanno sempre abitato nelle
perdute periferie della grande città e ora, dopo l’11 settembre, il
sospetto e la violenza sono aumentati. |
TORRESINO
- ottobre 2004