Fahrenheit 9/11
Michael Moore - USA 2004 - 1h 32'

 Palma d'oro al Festival di Cannes


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     Il dubbio se la Palma d’oro a Cannes fosse stato un premio squisitamente cinematografico o “politico” contro l’infausta gestione Bush è legittimo nell’accingersi alla visione di Fahrenheit 9/11, ma di fronte al lavoro di Michael Moore film successivo in archivio (già Premio Speciale a Cannes nel 2002 con Bowiling a Colombine, insignito poi dell’oscar come miglior documentario) la questione diventa superflua: il documentario è un “genere” cinematografico (anche Jacques Costeau ottenne la Palma d’oro nel ’56 per Il mondo del silenzio), il cinema nella sua espressione d’arte e di idee “è” politica. Certo in Fahrenheit 9/11 i contenuti sembrano prevalere sulla forma, ma questo è un problema del nostro occhio critico troppo compromesso con la fiction e con una rappresentazione del reale che parla spesso per analogie, metafore, “poetiche” d’autore. Quello di Moore è un articolato mosaico-montaggio di documenti concreti, di fatti ed immagini di dominio pubblico, ma non di pubblica “coscienza”. In sintesi Fahrenheit 9/11 mostra come la presidenza di George Bush jr. sia la vera vergogna americana e come dalla sua sfrontata (e “interessata”) inettitudine siano esplosi i drammi dell’attacco alle Torri gemelle e della guerra in Iraq. Il teorema di Moore, dimostrato con dovizia di reportage e interviste, parte da alcune sconvolgenti ipotesi/rivelazioni. In primis i brogli che hanno portato alla vittoria del 2000 (le omissioni, nelle composizione delle liste elettorali, di molta gente di colore – l’appoggio mediatico di un canale televisivo “di famiglia” - l’omertà del Senato), poi un’attività presidenziale, proprio nei mesi prima dell’11 settembre , costellata di vacanze e di partite a golf, i trascorsi imprenditoriali fatti di incapacità manageriali e di intrallazzi con l’Arabia Saudita e con la famiglia Bin Laden (!), le falsificazioni del curriculum militare, l’aver sottovalutato le relazioni della CIA sulla minaccia terroristica, il ritardo nella circostanziata caccia ad Al Qaida e al suo leader e Osama Bin Laden, l’inammissibile “protezione” ai familiari di quest’ultimo (nei giorni successivi all’attentato furono concessi voli speciali per farli uscire dagli States!), le menzogne per avallare la guerra in Iraq… Lo stupore per quanto Fahrenheit 9/11 racconta è pari alla suggestione per come ci viene raccontato: un ritmo quasi sempre incalzante (specie nella prima parte), un tono tra farsa e tragedia, uno stile placido e implacabile.

L’altra America che Michael Moore ci mostra non è solo quella della sua denuncia, ma anche quella dello scontento popolare. Una nazione portata sull’orlo dell’angoscia (per inettitudine - questa sì preventiva – e allarmismi), una crisi dell’occupazione fatta sfociare in arruolamenti “patriottici”, tanti giovani mandati a morire come ai tempi del Vietnam (e, su 553 membri del Congresso, uno solo ha un figlio in guerra!), le madri che si asciugano le lacrime e si confrontano con le illusioni di un nazionalismo democratico ambiguo e nefasto. Il punto non è tanto se a Cannes ci fossero (non pare) altre opere di così urgente cinematograficità. È come riuscire a dimenticare la voce di un quel marine che riflette che “ogni volta che uccidi un uomo perdi un pezzo della tua anima”, come riuscire a togliersi dagli occhi l’immagine di Bush che, quando viene a sapere dell’attacco alle Twin Towers, continua inerte, per minuti e minuti, nella sua visita diplomatica presso una scuola elementare…

ezio leoni - La Difesa del Popolo  5 settembre 2003