Il
dubbio se la
Palma d’oro
a Cannes fosse stato un premio squisitamente cinematografico o “politico”
contro l’infausta gestione Bush è legittimo nell’accingersi alla visione
di Fahrenheit 9/11, ma di fronte al lavoro di Michael Moore
(già Premio
Speciale a Cannes nel 2002 con
Bowiling a Colombine,
insignito poi dell’oscar come miglior documentario) la questione diventa
superflua: il documentario è un “genere” cinematografico (anche Jacques
Costeau ottenne la Palma d’oro nel ’56 per Il
mondo del silenzio),
il cinema nella sua espressione d’arte e di idee “è” politica. Certo
in Fahrenheit 9/11 i contenuti sembrano prevalere sulla forma, ma
questo è un problema del nostro occhio critico troppo compromesso
con la fiction e con una rappresentazione del reale che parla spesso
per analogie, metafore, “poetiche” d’autore. Quello di Moore è un
articolato mosaico-montaggio di documenti concreti, di fatti ed immagini
di dominio
pubblico, ma non di pubblica “coscienza”. In sintesi Fahrenheit
9/11
mostra come la presidenza di George Bush jr. sia la vera vergogna
americana e come dalla sua sfrontata (e “interessata”) inettitudine
siano esplosi i drammi dell’attacco
alle Torri gemelle e della guerra in Iraq. Il teorema di
Moore, dimostrato con dovizia di reportage e interviste, parte da
alcune sconvolgenti ipotesi/rivelazioni. In primis i brogli che hanno
portato alla vittoria del 2000 (le omissioni, nelle composizione delle
liste elettorali, di molta gente di colore – l’appoggio mediatico
di un canale televisivo “di famiglia” - l’omertà del Senato), poi
un’attività presidenziale, proprio nei mesi prima dell’11
settembre
, costellata di vacanze e di partite a golf, i trascorsi imprenditoriali
fatti di incapacità manageriali e di intrallazzi con l’Arabia Saudita
e con la famiglia Bin Laden (!), le falsificazioni del curriculum
militare, l’aver sottovalutato le relazioni della CIA sulla minaccia
terroristica, il ritardo nella circostanziata caccia ad Al Qaida e
al suo leader e Osama Bin Laden, l’inammissibile “protezione” ai familiari
di quest’ultimo (nei giorni successivi all’attentato furono concessi
voli speciali per farli uscire dagli States!), le menzogne per avallare
la guerra in Iraq… Lo stupore per quanto Fahrenheit
9/11
racconta è pari alla suggestione per come ci viene raccontato: un
ritmo quasi sempre incalzante (specie nella prima parte), un tono
tra farsa e tragedia, uno stile placido e implacabile.
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L’altra
America che Michael Moore ci mostra non è solo quella della sua denuncia,
ma anche quella dello scontento popolare. Una nazione portata sull’orlo
dell’angoscia (per inettitudine - questa sì preventiva – e allarmismi),
una crisi dell’occupazione fatta sfociare in arruolamenti “patriottici”,
tanti giovani mandati a morire come ai tempi del Vietnam (e, su
553 membri del Congresso, uno solo ha un figlio in guerra!), le madri
che si asciugano le lacrime e si confrontano con le illusioni di un
nazionalismo democratico ambiguo e nefasto. Il punto non è tanto se
a Cannes ci fossero (non pare) altre opere di così urgente cinematograficità.
È come riuscire a dimenticare la voce di un quel marine che riflette
che “ogni volta che uccidi un uomo perdi un pezzo della tua anima”,
come riuscire a togliersi dagli occhi l’immagine di Bush che, quando
viene a sapere dell’attacco alle Twin Towers, continua inerte, per
minuti e minuti, nella sua visita diplomatica presso una scuola elementare…
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