Non
è una sorpresa che il vincitore del Leone d’oro di quest’anno
sia proprio l’opera prima di Andrey Zvyagintsev,
Il ritorno
(Vozvraschenie). Esclusi alcuni magnifici abbagli e la (ri)conferma
autoriale di Bellocchio, Kitano e de Oliveira su tutti, infatti, la
selezione del concorso veneziano non suscitava poi grandi emozioni
e, sicuramente, la vittoria del russo Zvyagintsev rappresenta la scelta
più scontata (e non per questo meno opportuna) verso un cinema che
racchiude al suo interno sia la qualità, tecnica e narrativa, sia
la capacità di appassionare.>>
La peculiarità, che costituisce il fascino maggiore del film, è il non
detto, il non raccontato, il non mostrato, l’interrogativo crescente
che provoca in noi lo sbobinarsi di questa pellicola. In effetti, al
termine della visione noi non verremo a capo di nessun dubbio ed anzi,
saremo pervasi dall’angoscia suscitata dalla certezza che i nostri
quesiti non avranno mai una risoluzione.
La vita di due fratelli, Andrey e Ivan (i bravi Vladimir Garin e Ivan
Dobronravov) viene improvvisamente scossa dal ritorno a casa del
padre, mai visto prima se non in una foto vecchia più di dieci anni.
Senza apparenti e giustificate motivazioni i due ragazzi partono per
un viaggio assieme al padre che li porterà ad attraversare le steppe,
i boschi, il mare e i laghi sconfinati del nord della Russia, fino a
condurli in un’isola remota e desolata. Ma… perché il, presunto, padre
decide di tornare dopo tanto tempo a casa? perché non pensa di fornire
alcuna spiegazione del suo ritorno? Il padre decide poi di ripartire e
portare con sé i figli, si presuppone per riallacciare un rapporto, ma
perché riservare loro un trattamento brutale che lo porterà ad essere
odiato? e di cosa è alla ricerca il padre in quell’isola deserta? Come
queste, altre domande imperversano nella mente dello spettatore, e
lentamente (volutamente) l’attenzione viene concentrata più sulla
forza visiva scaturita dalle immagini che sul mistero della storia. E’
dalle immagini splendide che ha origine la costruzione drammatica, e
tutto, dalla sospensione delle nebbie contrapposta alle piogge
dirompenti così come la fermezza dell’acqua del lago contrapposta alla
fango tellurico, fa presagire un’inquietudine invadente che prima o
poi dovrà esplodere.
Il viaggio rappresenta un percorso di cambiamento per i due fratelli.
Si differenziano e si sedimentano i sentimenti e i rapporti più di
odio che di amore verso un padre burbero che non sembra in grado di
dimostrare il benché minimo affetto verso i figli. Un padre di cui
sempre più si può dubitare, imperscrutabile ed oscuro, per il quale
non si può che perdere la stima e lasciar posto al rifiuto. In fondo
tutto il film è basato su di un sostrato di rimandi biblici e
mitologici e come sostiene lo stesso regista, “per una buona parte il
film è uno sguardo con intenti mitologici sulla condizione umana”, ma
è proprio questo aspetto così concretamente espresso che fa de Il
ritorno un’opera fin troppo perfetta, certosina nella cura dei
dettagli, impeccabile. Evidentemente non sono certo questi attributi
negativi per un film, ma rimane un altro dubbio, oltre ai tanti che il
film stesso instaura nello spettatore, e cioè che siamo vittime di
fronte ad un’operazione così ben congegnata da rimanerne per forza di
cose impressionati, inermi e allettati. Come tali, questi dubbi, non
avranno seguito a lungo e con ciò non si può comunque trascurare le
indubbie qualità dell’opera di Zvyagintsev: i paesaggi infiniti che
riempiono l’anima, l’atmosfera malinconica, la tensione drammatica
crescente. La forza vera del film è la forza delle immagini, che è la
forza stessa del cinema. Sembra di perdersi nella vastità dei luoghi
che allo stesso tempo però costituiscono i limiti stessi dei
personaggi, dentro al quale si muovono e dentro al quale vengono
definiti e descritti; scoperti nonostante il mistero. L’intensità
visiva è frutto della passione per Antonioni, e si vede. Ma si odono
anche echi tarkovskiani. Non resta che aspettare per qualunque altra
considerazione su questo autore. Staremo a vedere…
Alessandro Tognolo -
MC magazine 8
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ottobre/novembre 2003
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