Liberato dall'assurdo divieto ai minori di quattordici
anni, ecco il miglior debutto cine-rock dell'anno,
Radiofreccia,
opera prima e ultima del cantautore Luciano Ligabue
che "amarcordeggia"
in flashback sugli anni '70. Quando, per esempio, a Correggio, dalle parti
di don Camillo, un gruppo di bravi e frustrati ragazzi dà vita a
un'emittente che dice pane al pane e rock al rock: primo sponsor, che non
si scorda mai, è il salumiere. Tra i teenagers del bar, sul cui
bancone filosofeggia Guccini mentre Vito serve i tavoli, la radio colma
molti bisogni, veri e finti, illusioni di libertà poi contraddette
dal "sistema".
Ma il film è la storia di Freccia, primo alternativo che manda a
quel paese mamma Serena Grandi, s'incastra in una love story borghese,
gode col microfono in diretta ma perde nell'imboscata con la droga, l'albero
delle "pere", dopo aver lanciato un lucido messaggio di disperazione
via etere. Il regista mostra una disfatta realistica ma anche didascalica:
al funerale dell'intenso, bravo, simpatico Stefano Accorsi la banda del
paese suonerà Elvis. Radiofreccia, per citare un grande,
ha il ritmo della vita senza zone morte, si compiace di piccole-medie-grandi
osservazioni sui vitelloni di provincia e le loro chiacchiere notturne
e le vite mezze spericolate, tendendo un filo rosso sulla linea della via
emiliana alla follia. Ma soprattutto racconta con slancio narrativo, col
gusto del carattere, della caricatura, dell'ironia, aiutato da un cast
giovane tutto espressivo e sintonizzato. Colonna sonora a piovere, ma anche
questa fa tutt'uno col film, facendolo arrivare, pur con qualche ovvietà,
a piena destinazione emotiva. |