Racconto di Natale
(Un
conte de Noël)
Arnaud Desplechin
– Francia
2008
- 2h 28'
|
Questo
natale va passato a Roubaix, in casa Vuillard. Angosce, rancori, premure
si incrociano e accavallano sinuosamente tra le pieghe del carsico
Racconto di Natale
a firma Arnaud Desplechin. Pretesto narrativo più vecchio del mondo: la
famiglia unita per il pranzo della vigilia. Il tradizionale abete è
seminascosto, i regali sono impachettati e poco importanti perchè per i
Vuillard conta l'esserci per rifondare simbolicamente e materialmente un
legame affettivo tenuto per troppo tempo in vibrante sospeso. Tara di
famiglia una sorta di leucemia galoppante che sfiora figli (il primogenito
Joseph morì a sei anni di questa malattia) e genitori. Mamma Junon (una
magnifica Deneuve) ha bisogno di un trapianto di midollo perché nessuna
chemioterapia potrà curarla. Al compostissimo capezzale natalizio a casa
Vuillard giungono i tre figli con seguito: Ivan (Melvil Poupaud) il più
giovane ed esuberante, compositore musicale a colpi di skretch, sposato
con Sylvia (Chiara Mastroianni) e padre di due gemelli; Henri (Mathieu
Amalric) il secondogenito violento e scapestrato che porta con sé
l'eccentrica nuova fiamma Faunia (Emmanuelle Devos); Elizabeth (Anne
Consigny) la composta sorella più grande con marito perennemente assente e
il figlio Paul appena uscito da un centro psichiatrico dopo un tentato
suicidio. A vegliare sul microcosmo papà Abel e il cugino Simon, cucitore
di trame disfatte tra parenti oltreché segretamente innamorato di Sylvia.
Tra figli e nipoti ci sono due possibili donatori per mamma, lo dicono i
medici. La scelta definitiva del donatore sbloccherà incomprensioni
sedimentate nel tempo in un'atmosfera di serena fatalità.
Racconto di natale
s'iscrive come deviazione mai scontata in un panorama di tragedie
familiari spesso patetiche. Desplechin non vuole rassicurare nessuno, non
cerca lieti fini e buone novelle. La sua messa in scena è delicato scavo e
riemersione continua di senso, flusso rigoglioso di immagini libere da
lacci formali, accostamenti di stile e abbattimento dei tempi tradizionali
dell'inquadratura. Ogni tanto perfino i protagonisti parlano guardando in
macchina, raccontando snodi critici del testo, quasi evocando modalità
shakespeariane. Un'eco classica che dona equilibrio di scrittura e pari
dignità tra protagonisti e presunte comparse. La colonna sonora mescola
cenni di classica, soul di Otis Redding e moderno hip-hop. E a quella
tavola mica tanto imbandita, tra quelle stanze in cui si sfiorano
liberamente corpi e anime, si ritrovano brandelli di vita talmente
universali da versare sinceramente una lacrima. Amalric nell'interpretare
il suo autolesionista e istrionico Henri è la vera valvola di sfogo per
una famiglia non più contrita e finalmente libera dai fantasmi del
passato. Due ore e trenta di durata che paiono dieci minuti. |
Davide Turrini - Liberazione |
Una
famiglia nella tempesta. Un autore bislacco e malnoto da noi, Arnaud
Desplechin, che parte da uno studio psicanalitico sui trapianti di midollo
tra consanguinei per farne una commedia piena di personaggi svitati e
adorabili. Il prologo, tragico, è affidato alle ombre cinesi: nascita e
morte prematura del primogenito per leucemia. Il resto gira intorno al
risorgere del morbo nella Deneuve, matriarca di un clan espanso ma minato
da caos congenito e lotte intestine. Per arrivare al fatidico trapianto
bisognerà superare molte ruggini, complicate da incidenti spesso
esilaranti e dalla bizzosa distribuzione di talenti in famiglia (per la
scrittura, per le arti, per i guai, per la follia). Non mancano echi
autobiografici visto che siamo a Roubaix, vicino Lilla, la città di
Desplechin, che ha una sorella scrittrice proprio come il protagonista, il
"briccone divino" Mathieu Amalric. Ma ogni pesantezza è bandita
dall'elettricità di un film che scioglie il dramma in gioco e sfida. I
personaggi si chiamano Faunia, Abele, Giunone, Dedalus; la nonna defunta
era mezza lesbica per cui al cenone di Natale si invita la sua ex-amica; e
fra adulteri e rese dei conti, anche in tribunale, Natale genera un tale
tsunami di sentimenti che le dichiarazioni d'amore sembrano dichiarazioni
di guerra, e l'unica a ritrovarsi in questo caos di affetti e rancori
sembra essere l'ospite di una sera, l'ebrea Emmanuelle Devos, spaesata e
divertita da quei cristiani così poco ortodossi. Strambo, iper-colto, a
dir poco spiazzante. Eppure è raro, oggi, trovare al cinema un senso così
tumultuoso della vita e dei suoi doppifondi. |
Fabio Ferzetti - Il
Messaggero |
Arnaud
Desplechin è un narratore radicale che sovraccarica le sue configurazioni
spaziali e temporali di segni espliciti, legami segreti e angoscianti
vuoti. Attraverso questa tecnica idraulica di pittura vivente richiama
dentro lo schermo voci e immagini dal fuori campo (dalla memoria dei
personaggi al semiconscio della ricezione) per svuotare, riempire o
contestare le sue forme. È come se il suo cinema ci mettesse davanti al
naso le cose della vita che spesso fuggiamo, invitandoci, per una volta,
in sala buia, a un gesto di coraggio e responsabilità, invece che
d'evasione. Questa volta è, oltretutto, sostenuto da una ritmica speciale,
cioè dalle musiche inebrianti e inquietanti di Grégoire Hetzel (in omaggio
a Charlie Mingus), che spesso invade come un virus, copre del tutto ma
raddoppia l'effetto armonico e pulsionale di un tessuto visuale spesso e
complesso. Insomma chi non ama questo film ha qualcosa da nascondere di
brutto, ha paura del lupo cattivo che ulula nel sottoscala... È come se
Desplechin strumentalizzasse la tecnica della confessione cattolica - del
luogo buio dove la coscienza si agita nel liquido amniotico della
biopolitica senza rete, in cerca di requie - per rafforzare quegli
ammonimenti morali tipici dei pastori protestanti, celati dietro
l'evasione hollywoodiana. Fabbricando una differente classicità.
Migliorando via via e giunto ormai al 7° film senza mostrare complessi di
sorta, anzi ambizioni da Chéreau o
Bergman,
Desplechin guida con maestria un cast di superstelle transalpine fino
dentro a casa sua (anche Hippolyte Girardot, Emmanuelle Devos, Chiara
Mastroianni...). Trascinandole tutte, al massimo della forma, sul
lastricato, scomodo e polveroso, coraggioso e perfino mortale, di un
dramma familiare laico non privo di salite e «muri di Grammont». Come in
un'avventurosa e folta fuga da Parigi a Roubaix, abbiamo «un gruppo solo
al comando». Era ora nell'era degli odiosi solisti. Una corsa da fermi,
però, perché il film ha unità di tempo (Natale), di luogo (agiata magione)
e coglie l'attimo magico nel quale esplode, in una famiglia, pilastro per
antonomasia di una società marcia, tutta la sua angoscia esiziale e la
psicosi autodistruttiva. Film intimo e feroce fino all'autobiografia (il
penultimo Desplechin, L'aimé, è un documentario su casa e genitori),
corale e dickensianamente scorretto,
Un conte de Noël
è ambientato a Roubaix, la nordica città di Desplechin, dei cui abitanti
Adriano Dezan raccontò in diretta tv, l' eroica «folle» combattività,
sincerità e determinazione. Non si può barare correndo in bici su quei
lastricati a pavé, ci si rompe la testa come capitava a Jean Robic,
proprio come non si può barare davanti a una malattia genetica, fatale,
rarissima. Che colpisce, per due volte, la ramificata famiglia borghese di
Abel Vuillard, il patriarca (Jean-Paul Roussillon), e Junon, la giunonica
moglie e papessa (Catherine Deneuve), che chiama attorno ad albero,
presepe e messa, figli, figliastri e nipotini, quasi tutti altrettanto
originali, eccentrici e pazzoidi. Come il figlioccio di Junon, Simon, un
pittore innamorato di Renoir quanto di Sylvie, la moglie del cugino Ivan,
ma che a lei non lo ha mai detto, rovinando così ben due vite. Tanti anni
prima il secondogenito Joseph era morto a 7 anni perché nessuno in
famiglia aveva il midollo osseo compatibile al «trapianto della speranza».
Nemmeno Henri (Matthieu Amalric), concepito di malumore proprio e solo per
quella biologica e chirurgica urgenza. E per sempre odiato, emarginato e
bandito (approfittando di una bancarotta forse fraudolenta) dalla
spocchiosa sorella Elizabeth, eternamente triste e dall'incurabile dolore,
che mai lo ha perdonato per la sua esplicita, «banalissima inutilità»
anche se è nel frattempo diventata drammaturga di fama. Ivan, il terzo
fratello, bello, affascinante, fortunato e normale, addirittura deejay, ha
messo al mondo con Silvie due bei figli biondi e ariani, ma un po'
«dannati»... E ora che proprio Junon dovrà combattere la leucemia con il
trapianto di midollo osseo e solo Henri e il nipotino Paul (figlio della
spietata Elizabeth) possono aiutarla (il piccolo rischiando la vita) che
succederà nella tre giorni di casa Vuillard?. |
Roberto Silvestri - Il
Manifesto |
promo |
La cena della
vigilia in casa Vuillardnon non ha certo la soavità delle feste:
malattie genetiche e trapianti di midollo osseo, figli
indesiderati e nuore o generi disorientati, lutti inespressi e
bancarotte incombenti. Tra le angosce di rancori e affetti mal
celati, un dramma alla Bergman in stile nouvelle vague, con una
regia che procede come in una composizione jazz: apparentemente
spontanea e zigzagante, in realtà controllatissima e avvolgente.
Tra grazia e sarcasmo un regalo di Natale del cinema francese. |