Preferisco il rumore del mare |
da La Stampa (Lietta Tornabuoni)
Calopresti al terzo film (i due precedenti erano La seconda volta e La parola amore esiste) conferma la sua gran bravura nel raccontare i problemi italiani attraverso i personaggi: dando ai fatti la complessità delle psicologie, dando alle persone la concretezza degli avvenimenti. In Preferisco il rumore del mare (il titolo è una citazione dai «Canti Orfici» di Dino Campana, «Fabbricare, fabbricare/preferisco il rumore del mare» usata pure in una delle ultime battute del film, «Sono tutte parole, io preferisco il rumore del mare») i problemi non sono convenzionali, al contrario. Senza ottimismi sociali né sociologici, il film dice: a ciascuno il suo luogo e il suo destino; comprendersi l'un l'altro è molto difficile e si può non arrivarci; la discussione può creare confusione anziché far superare i conflitti; essere tutti uguali non è necessariamente il progresso, si è e si può restare differenti; neppure la buona volontà generosa o il volontariato possono omologare il Nord e il Sud, i ricchi e i poveri, le classi sociali; ogni cambiamento possibile avviene attraverso l'esperienza e il rapporto con gli altri. I personaggi si muovono a Torino, dove il regista che ha adesso quarantacinque anni arrivò a otto anni da Polistena in Calabria seguendo il padre, un sarto divenuto operaio meccanico alla Fiat. A Torino ha fatto fortuna Silvio Orlando, meridionale immigrato, dirigente d'azienda, sposato con la figlia dellindustriale Lorenzo Ventavoli, poi separato- dalla moglie ma non dal suocero insieme al quale si trova ad affrontare il magistrato per illegalità compiute in fabbrica. Mentre è in vacanza al Sud, Orlando incontra un ragazzo nei guai (madre ammazzata, padre carcerato, un'accusa di aggressione), vuole aiutarlo, vuole anche che il proprio figlio della stessa età abbia contatto con un adolescente diverso da lui. Lo fa andare al Nord, a Torino, in una comunità guidata dal sacerdote Mimmo Calopresti, ricalcato sulla figura di don Ciotti. I due ragazzi si frequentano, tra loro nasce un'amicizia restia che non li cambia: il torinese ricco resta capriccioso, trasgressivo, inquieto, solo; il meridionale povero rimane superbo, laconico, doverista, diffidente. Quando si separeranno, qualcosa sarà mutato: il ragazzo del Nord e suo padre avranno imparato a ribellarsi almeno un poco, il ragazzo del Sud sarà meno duro, ma ciascuno rimarrà se stesso in un finale amaro e forse vitale. Nessuna semplificazione, nessuno schematismo. Una ricchezza, invece, che nutre ogni episodio e ogni dettaglio mai insignificanti, sempre eloquenti e necessari. Il racconto, con la sua intelligente complessità, fluisce affascinante nello stile esatto, asciutto e denso del regista, nella fotografia molto bella di Luca Bigazzi. Gli interpreti sono tutti ben diretti, efficaci, e Silvio Orlando è ammirevole: ha compiuto su se stesso un lavoro fisico (la faccia sbiancata, il modo di portare i vestiti) sufficiente da solo a definire (umanamente, socialmente) il personaggio, e il suo sguardo obliquo mentre bacia l'amica basterebbe a descrivere un carattere
da Il Corriere della Sera (Tullio Kezich)
Ancora un bellissimo film, fatto di emozioni incrociate tra noi e loro, platea e schermo, di Mimmo Calopresti, autore che sa andare controcorrente e rendere eloquenti le pause, i silenzi, le occhiate. In Preferisco il rumore del mare, verso di Dino Campana, il regista dimostra che forse, come aveva suggerito, la parola amore esiste. E racconta le due adolescenze infelici, opposte e complementari di Rosario, che, orfano di madre e col padre in galera, sale dalla Calabria a Torino, dove si confronta con l'infanzia di un capo, l'inquieto Matteo, figlio di Silvio Orlando, di corposa antipatia come manager parvenu, corrotto e divorziato. Non sarà facile per nessuno capirsi, in un mondo dove si buttano a mare i libri, nonostante il coraggio del prete alla don Ciotti reso con un po' di "controretorica" dallo stesso Calopresti. Meglio il rumore del mare che della fabbrica: l'importante è che le parole non siano vuote, che ciascuno cerchi di manovrare il proprio destino. Il film sospende il giudizio, anche se gli adulti perdono e i ragazzi si esercitano nella ribellione. Se nel contorno ci sono peccati veniali di stereotipi, soprattutto nella high society che quando vuole dà ancora del "terrone", ciò che arriva invece diretto e con grande personalità è il complicato trasloco dei sentimenti, quel modo di raccontare compatto ed espressivo, l'impaginazione sommessa in cui la sceneggiatura si poggia gentile e mai casuale. Voce, volto, cuore. Lo schizzo psicologico e la "fratellanza", sensibilmente resa dai due ragazzi, ricorda Così ridevano di Amelio. Con l'operatore Bigazzi, che inquadra l'interiorità dell'immagine, Calopresti è bravissimo nello spargere, nell'andata e ritorno degli affetti, tracce e indizi, in modo che ciascuno si faccia poi il proprio film e gli resti dentro un dubbio forte e chiaro.
scheda
CGS maggio 2000
[TORRESINO]