Perché
non piace ai cinefili un regista che ha fatto della cinefilia
l’oggetto dei suoi film? Giustificare i fischi, non condivisibili, che
hanno accompagnato la proiezione dell’ultimo film di De Palma
Passion
con l’apparente ingenuità della trama o con l’eccesso di stereotipi
depalmiani, appare riduttivo.
Di fatto
De Palma,
dopo aver occupato un posto di rilievo tra gli esponenti della New
Hollywood, non gode più dei favori della critica, ma soprattutto della
produzione statunitense (peraltro in buona compagnia: vedi Cimino,
Coppola…),
tanto è vero che per questo lavoro, che viene a cinque anni di
distanza da
Redacted,
ha dovuto ricorrere ad una produzione franco-tedesca.
Il film è stato infatti girato a Berlino e racconta la storia di una
letale lotta di potere tra due donne, Christine (Rachel McAdams) e
Isabelle (Noomi Rapace) nello spietato mondo del business
internazionale.
L’estetica del dejà vu, della ripetizione e del recupero, che percorre
tutta la filmografia depalmiana, raggiungendo la sua completa
teorizzazione in Femme Fatale del 2002, si ritrova anche in questo
film, che è esso stesso un remake di Crime d’amour (2010) di Alain
Corneau, ma rimanda anche nel titolo all’omonimo film di Godard
(1982).
Anche qui l’ombra di
Hitchcock, assieme a quella del Mankievicz di
Eva
contro Eva, rimane sempre sullo sfondo, con riferimenti espliciti a
Psyco (la doccia) e a
La donna che visse due volte (per il personaggio
della bionda Christine), enfatizzati dalle musiche di Pino Donaggio,
che “rifanno” Bernard Herrmann.
Ma è soprattutto il cinema di De Palma che viene riproposto in una
specie di “vertigo” autocitazionistica, in cui, nello scambio tra
apparenza e smascheramento, si rimette in gioco tutto il suo cinema.
Il tema del doppio (vedi Sisters) viene riproposto sia nella
prospettiva della presenza di una gemella, sia in quella della
relazione professionale tra le due colleghe, sia in quella
schizofrenica di due personalità che convivono nella stessa mente.
Quello del sogno (vedi Doppia Personalità), qui enfatizzato dal filtro
blu e moltiplicato in vari sogni concentrici, contribuisce a far sì
che dimensione reale e onirica si intersechino e si confondano.
E ancora ritroviamo il travestimento (Vestito per uccidere), la
maschera, il feticismo, il voyeurismo (Omicidio a luci rosse) e
soprattutto l’accento posto sulla soggettività della visione e sulla
moltiplicazione dei punti di vista, marche enunciative tipiche del
cinema di De Palma.
Basti pensare a come è stata costruita la scena dell’omicidio con la
triplice finestra dello split-screen, in cui vediamo da una parte
Christine nella doccia, dall’altra il volto di Isabelle con il
dettaglio degli occhi e dall’altra ancora il balletto Il pomeriggio
del fauno di Debussy, che a sua volta si svolge in un set composto di
tre pareti con i ballerini rivolti verso gli spettatori, come se
guardassero in una parete a specchio, contribuendo a confondere le
capacità percettive di chi guarda.
Ma
Passion non è soltanto questo: già nel lunghissimo piano sequenza
in soggettiva che apre
Omicidio in diretta (1998), De Palma ci aveva
dimostrato come l’apparente onnipotenza dello sguardo, lì portato ai
suoi limiti estremi, non ci permetta in realtà di vedere l’essenziale
(l’omicidio), in Redacted aveva spostato la questione sulla distanza
tra soggetto e oggetto della visione con una riflessione sull’immagine
e sul modo in cui può essere manipolata attraverso le nuove
tecnologie.
Passion apre sul logo della Apple, dietro il quale agiscono due “femme
fatale”, disposte a tutto pur di mordere il boccone del successo.
Lo spot che lancerà la carriera di Isabelle come creativa, viene
girato tramite un telefonino portato nella tasca posteriore degli
attillatissimi jeans dalla sua collaboratrice, che cattura così lo
sguardo (in macchina!) dei passanti che le sbirciano il sedere.
MacBook, iPhone, telecamere a circuito chiuso (vedi l’incidente nel
garage) permettono a De Palma di orchestrare sguardi, l’uno dentro
l’altro, manifestazioni di un mondo in cui sembra esserci sempre un
altro punto di osservazione nascosto.
Non a caso il film, quasi interamente girato in interni, fatti di
superfici riflettenti di vetro e acciaio, di Berlino utilizza gli
spazi del Bode Museum e la DZ Bank di Frank Gehry, uno dei maggiori
esponenti della corrente decostruttivista, creatore di spazi
incongrui, che costringono la percezione visiva a un continuo
riconfigurarsi dell’occhio.
L’impressione complessiva è che, nel gioco estremo di rivedere il
proprio cinema e il proprio amore per il cinema, attraverso la lente
prismatica dei nuovi strumenti di visione di massa (smartphones,
computers..), l’ipertrofia citazionista non faccia che portare a
guardare dentro il proprio abisso, dove, come nel triplo, quadruplo
sogno di Noomi Rapace, si riconfigura continuamente quello che
crediamo di aver visto.
E se questo spinge De Palma verso un cinema del futuro, allo stesso
tempo non può che spiazzare chi cerca nella “passione” cinefila i
segni della nostalgia.
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