La storia di
Ovosodo
parte dal rione di
Livorno del titolo, un quartiere popolare dove vive Piero, di bassa estrazione
sociale, ma di intelligenza sveglie e buona verve letteraria. Tra una prof.
che gli fa da seconda madre e un amico di Liceo che lo inizia alla cultura
alternativa ma anche allo snobismo della Livorno più emancipata,
Piero incarna la volontà di riscatto dei giovani proletari, le incertezze
romantico-poliche di una generazione, l'amaro immobilismo delle classi
sociali.
Ora
se il raccontino è stimolante (c'è un po' di deja-vu anni
primi '90, un occhio al sociale e al politico, ingenuità e sensualità
in dosata misura) la domanda è: che ci faceva un furbastro epigono
di Pieraccioni in una mostra d'arte cinematografica? E visto che oltre
che di arte si parla di cinema, anche volando bassi, qual è l'idea
di cinema che vende Virzì con il suo
Ovosodo? Una storiella
che sta in piedi a Livorno come dovunque, una sequela di battute che strappano
la risata toccando ora la satira ora la banalità ed una struttura
filmica di un'esilità sconcertante che ancora una volta si affida
all'espediente della voce narrante, che ormai non è una scelta stilistica
ma un comodo tappabuchi quando manca un progetto narrativo organico e funzionale.
Un giudizio pesante vero? Ma non credano i tanti spettatori che divertiti
escono da
Ovosodo
di trovarsi di fronte alla solita diatriba stroncatura della critica-gradimento
del pubblico. Noi denigratori di questo
Virzì
siamo in pochi,
anche al festival molti colleghi l'hanno apprezzato, ma se l'inserimento in
concorso è forse stato giusto nel panorama della produzione italiana, da questo
a tributargli il Premio speciale della giuria, beh ce ne vuole...
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