Va
al bosniaco
Morte a Sarajevo
l'Orso d'Argento premio speciale della Giuria. L'autore è quel Denis
Tanovic già venuto alla ribalta anni fa con un Premio Oscar al miglior
film straniero per il suo
No man's land
sulla tragedia degli anni '90 in Jugoslavia.
Qui siamo appunto nella capitale bosniaca Sarajevo. È il 28 giugno
2014, centesimo anniversario dell'assassinio da parte del giovane
nazionalista Gavrilo Princip, dell'erede al trono d'Austria e Ungheria
arciduca Francesco Ferdinando e della moglie, episodio che, per
opinione consolidata degli storici, è l'elemento scatenante della
Prima Guerra Mondiale e di tutto quello che verrà dopo.
Il film è liberamente ispirato ad una piece teatrale di Bernard Henry
Levy, portata effettivamente in scena a Sarajevo in quella data da
Jaques Weber, e che il regista amplia fino ad includere un vasto
ventaglio di personaggi e situazioni raffiguranti la storia e l'anima
bosniaca.
Tutto si svolge in un simbolico Hotel Europa, nella realtà l'hotel
Holiday Inn di Sarajevo, eretto in occasione delle Olimpiadi dell'84 e
ridotto ad uno scheletro durante il terribile assedio degli anni '90.
Ora, perfettamente restaurato, si accinge ad accogliere un meeting di
studio e di commemorazione della storica data, a cui saranno presenti
alte personalità dell'Unione Europea.
Ma dietro alla facciata nulla funziona, l'albergo è pieno di debiti e
prossimo al fallimento. Il direttore Omer, desideroso di fare bella
figura di fronte alle telecamere di tutto il mondo, deve affrontare la
rivolta dei dipendenti da mesi senza stipendio e che hanno deciso di
scioperare approfittando dell'occasione mediatica.
Lamia, la bella capo receptionist, cerca di mediare tra le parti, ma
le cose precipitano. Il capo degli scioperanti è sequestrato e
picchiato nel sotterraneo-night club dell'hotel da una banda di
mafiosi al servizio della direzione.
Nel frattempo, con una telecamera nascosta e con la scusa di
proteggerlo, un altro losco figuro, evidentemente anche lui al
servizio del direttore, spia e registra l'attore francese (chiara
metafora dell'intellighenzia europea) che nella sua suite si prepara
ad entrare in scena.
Morte a Sarajevo è un film in verticale, claustrofobico. I lunghi
piani sequenza nei corridoi, nelle cucine, negli ascensori, sono
simbolici dei vari livelli psicologici e sociali della realtà
bosniaca, dalle cantine dove il crimine è perpetrato, alla terrazza
panoramica sulla città, dove forse si respira e si cerca di capire
confrontandosi.
Qui Vedrana, la giornalista, interroga le varie personalità del
prossimo meeting: storici, esperti, personaggi politici. Le domande
non risposte, inevase, sono sempre le stesse: è la società bosniaca
impenetrabile al confronto e alla "sopportazione" tra le culture?
Perché la violenza? Perché proprio lì? Perché sempre lì da un secolo?
Vedrana cerca di capire, di creare un dibattito.
È senz'altro questa la parte migliore del film, che culmina
nell'incontro-scontro tra la giornalista e un giovane estremista
che, incredibilmente, si chiama come l'anarchico di un secolo prima – Yes,
my name is Gavrilo Princips – e per cui il suo omonimo era un eroe,
non un assassino (opinione peraltro comune nella ex-Jugoslavia).
La giornalista con lui rievoca la storia di Sarajevo negli anni '90
fino al sanguinoso assedio e alla strage di Srebenica. Con Vedrana,
che arriva a chiedergli: Tu, G. P., chi uccideresti oggi, uno dei
politici che stanno arrivando o un leader nazionalista? E lui che
risponde nichilisticamente: Nessuno dei due, tanto non servirebbe a
niente, non è mai servito a niente.
Bello l'intento di Tanovic di darci un ritratto variegato e sincero
del dramma irrisolto e delle prospettive del suo Paese, ma l'obiettivo
è solo parzialmente raggiunto.
Film corale, ben diretto e ben recitato (in tanti hanno fatto un
paragone con
Nashville di
Altman o addirittura con lo storico
Grand
Hotel), ma forse,
Morte a Sarajevo, rispetto ai modelli di cui sopra,
non riesce a raggiungere una coesione interna stringente, rimane un
po' una serie di episodi senza una conclusione drammatica.
Ci sarà, alla fine, un colpo di pistola, senza vittime né colpevole. Così è, e
sarà sempre, la Bosnia?
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