Luther - genio ribelle liberatore
Eric Till - Germania 2003 - 2h 1'



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"La mia coscienza è prigioniera della parola di Dio"

   Temi religiosi al botteghino. Se il furore splatter de La passione di Cristo ha mietuto incassi record (già 19 milione di euro sul territorio nazionale), se la riedizione del rigore pasoliniano (Il Vangelo secondo Matteo) ha acceso solo lo spirito degli spettatori d’essai (solo cinque copie e circa 20 mila euro), Luther di Eric Till sta dando risultati al box office più che apprezzabili (1 milione di euro in due settimane). E la domanda, confacente a questo spazio critico, è “se li merita?” La risposta è “no”, come per l’acclamato film di Mel Gibson. Ma per ragioni ben diverse.
Se la storia del Cristo è patrimonio comune, quella di Lutero, nella sua complessità, va ancora considerata appannaggio di una minoranza di esperti (storici e teologi in primis). L’opera di divulgazione del film è sicuramente meritevole (non per niente c’è alla base la Chiesa luterana americana che l’ha finanziato con 50 milioni di dollari): Lutero (Joseph Fiennes), che prende i voti dopo una “folgorazione” metereologica, dissipa i propri dubbi vocazionali attraverso con un surplus di studi teologici (nell’università di Wittenberg) e un traumatico approccio con la Chiesa romana (lasciva e compromessa nel commercio delle indulgenze). Forte degli insegnamenti del suo padre spirituale agostiniano (“io sono tuo, salvami”) e della protezione di Federico di Sassonia (Peter Ustinov), affronta, con la sicurezza di un’esegesi “amorevole” del messaggio evangelico, una disputa “eretica” (le 95 tesi del 1517) con il pontificato di Papa Leone X, dedito più all’edificazione della Basilica di San Pietro che alla conciliazione con le istanze della cristianità. L’evolversi degli eventi porterà a un processo (e, a Worms, solo un salvacondotto garantirà la libertà al ribelle Lutero), alla scomunica, alla guerra religiosa (che in Germania mieterà tra le 50 e 100 mila vittime), alla pubblicazione della prima versione in tedesco del Nuovo Testamento, allo scontro tra Carlo V e i suoi principi, alla realtà dello scisma protestante.

L’immagine di Martin Lutero ne esce tonificata è più che mai “in positivo”. Sono molti gli omissis storico-teologici (nessun accenno alla disputa fede-opere o alla sua alleanza con i notabili contro i contadini, non certo in linea col tono del film) e nella seconda parte le elissi narrative tolgono la possibilità di una vero approfondimento culturale.
Ma la questione in oggetto è il cinema (con la c maiuscola) e ancora una volta, purtroppo, afflato divulgativo e compiutezza filmica non sono in sintonia. I modi e i tempi cinematografici con cui Till presenta i fatti e delinea il suo personaggio sono quelli teatral-avventurosi dello sceneggiato televisivo gonfiato per il grande schermo. Affascinanti le arringhe infuocate di Lutero (“la mia coscienza è prigioniera della parola di Dio”), sopra le righe l’esternazione dei suoi dilemmi interiori (e il fisico aggraziato di Fiennes resta più adatto alle schermaglie di
Shakespeare in Love che alla corpulenta raffigurazione tramandataci da Cranach). Di efficace impatto la potenza architettonica di chiese e castelli (che ben verticalizzano la dimensione spirituale), molto di genere la messa in scena di prelati, principi e contadini in rivolta. Resta negli occhi quella scalinata romana in cui, al ritmo un gradino e un Pater Noster, l’obolo si traduce nell’espiazione del purgatorio per un familiare, ma anche l’arrivo hollywoodiano dei cavalieri con cui si confrontano, nel finale, Lutero e la moglie (ex suora) Katerina.
Possibile che le istanze di fede sugli schemi del nuovo millennio non sappiano equilibrasi tra il rozzo effettismo di Gibson e questo didascalico romanzo?

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  23 maggio 2004