Temi
religiosi al botteghino. Se il furore splatter de
La passione di Cristo
ha mietuto incassi record (già 19 milione di euro sul territorio
nazionale), se la riedizione del rigore pasoliniano (Il
Vangelo secondo Matteo) ha acceso solo
lo spirito degli spettatori d’essai (solo cinque copie e circa 20 mila
euro),
Luther
di Eric Till sta dando risultati al box office più che apprezzabili (1
milione di euro in due settimane). E la domanda, confacente a questo
spazio critico, è “se li merita?” La risposta è “no”, come per
l’acclamato film di Mel Gibson. Ma per ragioni ben diverse.
Se la storia del Cristo è patrimonio comune, quella di Lutero, nella sua
complessità, va ancora considerata appannaggio di una minoranza di
esperti (storici e teologi in primis). L’opera di divulgazione del film
è sicuramente meritevole (non per niente c’è alla base la Chiesa
luterana americana che l’ha finanziato con 50 milioni di dollari):
Lutero (Joseph
Fiennes),
che prende i voti dopo una “folgorazione” metereologica, dissipa i
propri dubbi vocazionali attraverso con un surplus di studi teologici
(nell’università di Wittenberg) e un
traumatico approccio con la Chiesa romana (lasciva e compromessa nel
commercio delle indulgenze). Forte degli insegnamenti del suo padre
spirituale agostiniano (“io sono tuo, salvami”) e della
protezione di Federico di Sassonia (Peter Ustinov), affronta, con la
sicurezza di un’esegesi “amorevole” del messaggio evangelico, una
disputa “eretica”
(le
95 tesi del 1517) con il pontificato di Papa Leone X, dedito più
all’edificazione della Basilica di San Pietro che alla conciliazione con
le istanze della cristianità. L’evolversi degli eventi porterà a un
processo (e, a Worms, solo un salvacondotto garantirà la libertà al
ribelle Lutero), alla scomunica, alla guerra religiosa (che in Germania
mieterà tra le 50 e 100 mila vittime), alla pubblicazione della prima
versione in tedesco del Nuovo Testamento, allo scontro tra Carlo V e i
suoi principi, alla realtà dello scisma protestante.
L’immagine di Martin Lutero ne esce tonificata è
più che mai “in positivo”. Sono molti gli omissis storico-teologici
(nessun accenno alla disputa fede-opere o alla sua alleanza con i
notabili contro i contadini, non certo in linea col tono del film) e
nella seconda parte le elissi narrative tolgono la possibilità di una
vero approfondimento culturale.
Ma la questione in oggetto è il cinema (con la c maiuscola) e ancora una
volta, purtroppo, afflato divulgativo e compiutezza filmica non sono in
sintonia. I modi e i tempi cinematografici con cui Till presenta i fatti e
delinea il suo personaggio sono quelli teatral-avventurosi dello
sceneggiato televisivo gonfiato per il grande schermo. Affascinanti le
arringhe infuocate di Lutero (“la mia coscienza è prigioniera della
parola di Dio”), sopra le righe l’esternazione dei suoi dilemmi
interiori (e il fisico aggraziato di Fiennes resta più adatto alle
schermaglie di Shakespeare in Love
che alla
corpulenta
raffigurazione tramandataci da Cranach). Di efficace impatto la potenza
architettonica di chiese e castelli (che ben verticalizzano la
dimensione spirituale), molto di genere la messa in scena di prelati,
principi e contadini in rivolta. Resta negli occhi quella scalinata
romana in cui, al ritmo un gradino e un Pater Noster, l’obolo si traduce
nell’espiazione del purgatorio per un familiare, ma anche l’arrivo
hollywoodiano dei cavalieri con cui si confrontano, nel finale, Lutero e
la moglie (ex suora) Katerina.
Possibile che le istanze di fede sugli schemi del nuovo millennio non
sappiano equilibrasi tra il rozzo effettismo di Gibson e questo
didascalico romanzo?