Nella
naturale evoluzione dei generi e progressiva ridefinizione delle
varianti formali che li definiscono, di sicuro il documentario - nella
sua ovvia e doverosa ragione d’esistere, strettamente legata ai fatti,
a ciò che accade, o è accaduto - si configura come convenzione
facilmente sottoponibile al rischio dell’ibridazione e del
fraintendimento. Ancora una volta però, è nel significante che si
determinano le varianti di quella struttura specifica attraverso la
quale è possibile documentare, e dunque credere a ciò che viene
mostrato, senza dover pensare, come spesso accade genericamente, alla
ricreazione finzionale della scena. Ecco dunque che il cinema
ripropone intensamente la propria forza esperienziale e simbolica, e
si configura come un processo cognitivo in grado di irrompere
significativamente nel placido universo delle sensazioni artefatte e
anodine, alle quali l’occhio è miseramente abituato e imbrigliato, in
uno stato di catatonia della rappresentazione.
Con
Le fossé
(The Ditch - Il fossato), il giovane regista cinese Wang Bing
porta a compimento un intenso e radicale lavoro di ricerca di
contenuti, calibrazione della forma, scuotimento della visione e
innesto di indignazione: nel 1957, il governo cinese condanna ai campi
di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati “dissidenti di
destra” a causa delle loro attività passate, di critiche contro il
Partito Comunista o semplicemente a causa della loro provenienza
sociale e familiare. Deportati per essere rieducati nel campo di
Jiabiangou della Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi,
lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e dai propri cari,
circa tremila intellettuali di estrazione basso o medio borghese dalla
provincia di Gansu furono costretti a sopportare condizioni di
assoluta povertà. A causa delle fatiche disumane a cui venivano
sottoposti, delle condizioni climatiche estreme e incessanti e dalle
terribili penurie di cibo, molti morirono ogni notte nei fossi dove
dormivano.
Le fossé
ricrea e rivela audacemente, attraverso l’esercizio di una
rappresentazione immune da compromessi, fedelmente e minuziosamente
fissata a un modello realistico netto ma mai compiaciuto, il terribile
deserto della morte in cui vennero sprofondati i corpi senza giustizia
di cittadini inconsapevoli delle proprie colpe, vittime della
psicotica rieducazione maoista. A partire dalle testimonianze dei
sopravvissuti del campo di Jiabiangou, intervistati dallo stesso
regista tra il 2005 e il 2007, e dal romanzo di Yang Xianhui
Arrivederci Jiabiangou, Wang Bing rivive
per mezzo della sua messa in scena volontariamente e - a conti fatti -
necessariamente impudica, limpida, ostinata e, a tratti, quasi
insostenibile, quella realtà tragica trasmessa dai reduci di quel
campo di lavoro situato in alta quota, anticamera della disperazione
prima dell’annientamento definitivo, in cui i prigionieri erano
costretti a scavare fossi nel nulla di sabbia e polvere di un deserto
impraticabile, per contenere montagne di cadaveri, e il più delle
volte il proprio stesso corpo esangue. “La prima metà del film
mostra i personaggi mentre aspettano rassegnati di morire nell’arido e
desolato deserto del Gobi. Nella seconda metà, l’arrivo di una donna
disturba la loro silenziosa attesa della morte. La sua presenza
introduce un nuovo elemento nel film: l’impatto storico di un’intensa
pressione psicologica sullo spirito della gente in Cina. Alcuni
rifiutano di rassegnarsi e tentano la fuga, ma questo li porta più
vicini alla morte. Ciò che la storia della Cina dimostra, a dire il
vero, è che la sottomissione e la sopportazione sono le uniche monete
di scambio che i cinesi hanno avuto per poter vivere la propria vita
in pace”. La specificità inamovibile di
Le fossé
è la sintesi della straordinaria forza espressiva dello sguardo del
suo autore: “In questo film ho esplorato la possibilità dell’uso di
uno stile documentaristico per sviluppare un linguaggio improntato al
realismo, aggiungendo da un lato la tensione drammatica di un
lungometraggio narrativo, e dell’altro attingendo al teatro cinese
classico per le espressioni tradizionali di tragedia e sofferenza dei
personaggi”.
Questa scelta produce un effetto destabilizzante per la visione
poiché, senza che vi sia un’esaltazione di alcun tipo di ricerca
estetica, svanisce la possibilità di un rapido rifugio nella coscienza
del reale ma allo stesso tempo permette l’irruzione del dramma del
vissuto come se ci respirasse accanto. L’organo di ripresa osserva
impassibile la sofferenza, i lamenti, i tormenti, la perdita di senso
e dignità dei corpi, senza per questo cedere mai alla morbosità,
nonostante la potenza distruttiva del disfacimento, oltreché fisico,
psicologico e morale, a cui essi sono lentamente sottoposti (i morsi
della fame costringono un prigioniero a mangiare un topo, e un altro i
resti di un rigurgito), e il nulla che delimita e avvolge l’orizzonte
di quel deserto gelido e incessantemente battuto dal vento. E in
questa dimensione del vuoto che ricopre le fosse scompare del tutto il
tempo, la consistenza sconosciuta del divenire, e l’esistenza dei
condannati si trasforma in un loop ossessivo ipertrofico, irrazionale,
senza soluzione di continuità.
Il grido politico racchiuso in
Le fossé
si palesa in una narrazione che è storia, quella storia che - così
come è successo per Jia Zhang-ke e Koji Wakamatsu - Wang Bing ha
deciso di ripercorrere e rivelare (il suo documentario precedente
He Fengming, del 2007, è il
ritratto di un’anziana donna cinese che racconta trent’anni della sua
vita intrecciandola con la storia della Cina comunista), senza punti
di vista cristallizzati, svincolato dalla pastoia del compromesso
distributivo, attraverso l’inveterato stupore della sua macchina da
presa.
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