Documentare
la realtà, filmare la realtà, riportarla, descriverla, fissarla,
esprimere i fatti per ciò che sono, è un espediente che conferisce
autorità e senso immediato a qualunque operazione che si prefissi tale
scopo. Ma è evidente - e il cinema ancora una volta è il mezzo
prediletto per amplificarne la portata concettuale e rappresentativa -
che l’esito ribadisca quanto non basti affatto l’appoggio del reale
per rendere una storia, o meglio, uno sguardo, stimolante e
significante, e lo scarto tra gli occhi di chi guarda crei un abisso
che vede da un lato un vano tentativo di mettersi in mostra con una
futile ricerca di ordinarie storielle, e dall’altro il peso oneroso
dell’esplorazione, della fervente curiosità, della riflessione
critica, personale e distaccata. Da questa parte del guado risaltano
nomi come Joshua Oppenheimer, Werner Herzog, Frederick Wiseman, Errol
Morris, Pietro Marcello e non ultimo Wang Bing
. Il nome di Bing è da
anni una certezza di intenti e una nitidezza di sguardo: da sempre
rivolto verso un mondo appannato e invisibile, oppresso e martoriato
senza cadere vittima di un becero pietismo spirituale o di
qualsivoglia empito religioso. La presenza di un film di Wang Bing in
un festival, o rassegna, o museo (memorabile la retrospettiva a lui
dedicata organizzata dal Centre Pompidou di Parigi, o la presenza dei
suoi video al Moma) permette il proseguimento di un discorso sul
presente della Cina, lungo linee transitorie di mutamento e
devastazione interiore che riflettono l’andamento decadente e
dissacrante di un’intera nazione fondata su non si sa bene quali
valori.
Ku Qian
(Bitter
Money) segue tre giovani che lasciano la loro città natale
nello Yunnan per andare a lavorare per la prima volta in una
delle città più frenetiche della costa orientale cinese, dove c’è il
più alto numero di lavoratori part-time. La macchina da presa segue
ogni personaggio da vicino, catturando le vere emozioni del loro
lavoro quotidiano e le loro delusioni quando riscuotono la paga. Il
denaro non è mai stato così importante nella società cinese. Oggi
tutti vogliono avere soldi. Invece, in realtà, tutti sognano a occhi
aperti.
Difatti l’occhio della macchina da presa del regista è un
accompagnatore seriale di incubi: li accoglie, li accarezza, li
scruta, li pedina, senza essere invasivo ma non per questo
necessitando di nascondersi.
“A volte vedi dei palazzi che dal di
fuori sono puliti e belli, poi ci vai dentro ed è una toilette. Mi
piace solo riprendere la vita delle persone esattamente come è, non
voglio cambiare niente. Non voglio riprendere cose che sono belle solo
dall’esterno”. I soldi amari del titolo sono il filo che lega le vite riflusse che riempiono le fabbriche di sfruttamento della Cina di
oggi. Migranti che svuotano le campagne verso città irrespirabili che
inghiottono i sogni contraffati per una vita consumistica che si spera
migliore e altro non è che un effimero tentativo e un passo ulteriore
verso la disperazione. I personaggi trovano solo piccole opportunità e
scarse condizioni di vita che spingono tutti, anche le coppie, verso
rapporti violenti e oppressivi.
Wang Bing non punta a impressionare, a far fumare l’animo dello
spettatore per l’indignazione o colpirlo per con una narrazione
concitata e immagini dalle geometrie impeccabili e i colori ritoccati;
gran parte del suo lavoro è proprio quella di non inseguire la
dimostrazione di una tesi ma far esplodere il sentimento trattenuto
delle persone che sceglie di seguire. E la misura in cui questa scelta
influisca sul senso del gesto filmico è essenziale: le immagini
scorrono in balia del caso e delle conseguenze che l’aspettativa e
l’amarezza portano con sé e i protagonisti per Bing sono i simboli di
questi effetti, con le loro incongruenze, i loro spigoli, le loro
volontà e le loro richieste esplicite verso l’occhio indagatore. Tutto
scorre nella normalità della vita di ogni giorno. Questo forse può
apparire a molti monotono, ma per fortuna, ancora una volta, ci sarà
Wang Bing a ricordarci che in quel grigiore scorre una linfa degna di
rispetto.
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