Non è una
novità: ci sono diversi tipi di pubblico, i quali, in particolare con
certi film, non troveranno mai un accordo nel giudizio e una
soddisfazione simile nel risultato della loro visione. I film in
questione sono quelli degli autori importanti, (ri)conosciuti, dalla
filmografia lunga e complessa, dei maestri, come ricorda giustappunto
la sezione veneziana nella quale rientravano quest’anno figure come
Woody Allen (Cassandra’s dream), Manoel de Oliveira (Cristovao Colombo
– O enigma), Im Kwon Taek (Beyond the years), Takeshi Kitano (Glory to
the filmmaker!), Julio Bressane (Cleòpatra). Le divergenze del
pubblico invece, sono, come in questo caso, manifestate da un
manicheismo delle aspettative, esercitato dall’attesa del nuovo,
sconosciuto, misterioso, lavoro di colui il quale molte volte in
precedenza è riuscito a emozionare, sorprendere, plasmare forme grazie
al cinema. Perciò: c’è chi persegue l’idea del valore categorico della
novità come innovazione e diversità (il mai visto), e c’è chi
parsimoniosamente si accontenta di cogliere il più possibile (positivo
e negativo) dall’unicità dell’opera, senza troppe dietrologie nel
proprio magazzino di immagini raccolte nel tempo.
Cosa di può dunque dire del film di un autore (e maestro) come
Claude
Chabrol?
La Fille coupée en deux (letteralmente, la ragazza tagliata
in due) è una storia sul complesso connubio tra amore e tradimento:
una ragazza che vuole avere successo nella vita e la cui radiosità
seduce chiunque le stia accanto, si innamora di uno scrittore celebre
ma perverso e sposa un giovane milionario psicolabile. Si tratta
chiaramente di un triangolo, le cui sorti sono tutte affidate al
potere ammaliatore della bella Gabrielle, fulgida incarnazione di un
aperto conflitto tra due mondi, due impulsi, due desideri, due uomini,
ma una sola vita, e un solo corpo. Un dissidio interiore che la
sagacia di Gabrielle non riesce a gestire, incapace di contrastare la
passione insopprimibile e rabbiosa per il vecchio scrittore, fruitore
e fautore deviato e irriconoscente della lascivia alla quale la
fanciulla si abbandona senza timore. Una relazione, questa,
clandestina, innegabilmente senza futuro, che il rampante
corteggiatore, damerino buffo ed effettato, non può sopportare né
contrastare con l’influenza del denaro. L’epilogo non può che sfumare
al giallo e poi al nero, nonostante quest’ultimo non perda tempo per
mostrarsi in più occasioni. E l’ultima drastica sequenza sembra molto
più che una facile scappatoia, quanto piuttosto una condensazione
spettacolare, poiché la ragazza divisa psicologicamente, eleva a
soggetto l’intima condizione esistenziale, divenendo apparato
scenografico fantastico, perentoriamente e visibilmente scisso.
È chiaro che la disposizione della fabula relazionale determina un
intricato e imprevisto crescendo di sentimenti descritti da Chabrol
con tanta e tale finezza, precisione, intensità, e contegno di forma e
sensibilità da risultare sublime. Una caratteristica non nuova, ma
infinita, perché non c’è limite alla produzione di storie e ogni
storia – così come ogni atto linguistico – è diverso da se stesso a
ogni sua nuova creazione.
Solo attraverso l’opposizione attuata dalle apparenze si determinano
le verità dei personaggi: nella pelle pallida e nelle forme e nel viso
pieno di grazia di Ludivine Sagnier coupée en deux è racchiusa una
carica erotica sconvolgente e fagocitante; e tramite l’eleganza e il
pudore dei modi della borghesia intellettuale viene suggerito il
contesto di uno sfondo e una società ombrosa, dissoluta e inquietante.
“La perversità è l’arte di trasformare il bene in male.” Così la noia
e l’assuefazione, tipica di spettatori voraci e pressapochisti, sono
lo stimolo per trasformare il bello in brutto. .
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