Las Acacias
Pablo Giorgelli - Argentina/Spagna 2011 - 1h 25'
versione originale sottotitolata

Camera d'Or


   Ruben è un camionista che si è recato in Paraguay per rilevare un carico di legname. Il suo datore di lavoro gli ha chiesto di dare un passaggio a Jacinta che si rivela essere una giovane madre con una figlia di 5 mesi al seguito. La metà è Buenos Aires. Il silenzio domina nell'abitacolo dell'autoveicolo ma piano piano viene intaccato da poche frasi e gesti di reciproca fiducia.
Alla fine della visione del film molti, magari non avendo grandi competenze in ambito botanico, potrebbero chiedersi il perché del titolo. Le acacie sono alberi duri e dalla corteccia spinosa e non è un caso che la prima inquadratura del film documenti l'abbattimento delle piante. Ruben è come un'acacia, indurito superficialmente da una vita di cui lascia trapelare solo qualche dettaglio. E, anche se addolcita da un sorriso coinvolgente, un po' così è anche Jacinta che circa a metà film darà una non risposta alla domanda che tutti gli spettatori si saranno posta: chi è il padre della bambina?
Camera d'Or (cioè premio alla migliore opera prima) a Cannes 2011 il film di Pablo Giorgelli è dettato da una profonda sensibilità che coinvolge sia il versante maschile che quello femminile (non è un caso che al montaggio al suo fianco ci sia stata la moglie a scegliere con lui i campi e controcampi giusti di cui il film si nutre). Perché questa è un'opera che può mostrare e dimostrare come il cinema possa fare un uso accorto oppure disastroso dei silenzi e dei cosiddetti tempi morti.
Quanti film ognuno di noi ha visto in cui i silenzi rappresentavano solo una pretesa paraintellettualistica e i tempi morti erano davvero tali perché nulla interveniva a offrirne il senso? In questo caso la memoria cinefila va invece a un modello troppo spesso dimenticato o imitato maldestramente:
Robert Bresson. Il grande regista affermava: " Il cinema sonoro ha inventato il silenzio." e "Ripresa. Angoscia di non lasciar sfuggire nulla di ciò che intravedo appena, di quel che forse ancora non vedo e potrò vedere soltanto più tardi".
Las Acacias può essere sintetizzato in queste due frasi. Perché in esso il silenzio diventa uno spazio fisico che potrebbe segnare una insuperabile distanza tra due esseri umani che siedono a pochi centimetri l'uno dall'altra oppure un territorio da conquistare con pudore palmo a palmo e poco per volta. Ma anche ciò che si vede lascia percepire l'attenzione data al sentire dei due protagonisti con quell'angoscia bressoniana destinata a tramutarsi nello spettatore in una visione ulteriore in cui la piccolissima Anahi offre ai protagonisti, con il suo agire libero da ogni convenzione, un fragile ponte da attraversare per incontrarsi al di là di ogni possibile retorica.

Giancarlo Zappoli - Mymovies.it

   Qui le acacie sono sempre sullo sfondo ma sono una presenza fissa, anche se le vediamo poco. Las acacias, opera prima di Pablo Giorgelli e vincitore della Camera D’Or al Festival di Cannes 2011, è infatti un film rarefatto. Nella povertà dei mezzi sta la sua forza (...) Questo di Giorgelli è un film che lavora sulla sottrazione. L’essenziale, che come diceva Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, qui lascia spazio al cinema in tutta la sua vera forza. Il cinema fatto di immagini, gesti ed espressioni.
Poche parole, totalmente ininfluenti rispetto alla trama, che è esile ma alla fine arriva dritto al cuore. La storia di un burbero trasportatore di acacie (Germàn de Silva) che beve mate e di una madre (Hebe Duarte) con figlia al seguito (una meravigliosa Nayre Calle Mamani) a cui l’uomo dà un passaggio per Buenos Aires. Tutto qui.
È nella mancanza di parole, nell’assoluta assenza di musica, che il gesto degli attori diventa forte e pieno di significato.
È nella costante presenza del rumore di fondo che si percepisce la presenza della vita. È nella carica di ogni singola immagine che il cinema diventa ancora e sempre racconto, al di là delle acacie...

Felice Valerio Bagnato - 35mm.it

Perché il riferimento alle acacie nel titolo?
P.G.
Le acacie compaiono nella prima scena e nel finale, il camion guidato da Rubén (German de Silva) ne trasporta i tronchi. Sono passati cinque anni dalla prima idea del film, solo due sono stati necessari per scrivere. Las Acacias inizialmente era solo un titolo di servizio, la verità è che non volevo che il titolo svelasse la storia del film. E poi c’è tutto l’aspetto metaforico: Rubén è come un’acacia, è duro, ha una corazza spinosa, non ci si può aggrappare su di lui. Inoltre, la cosa interessante è che l’acacia non è un albero particolare, è comune, lo si trova ovunque.
La prova degli attori?
P.G. German de Silva (Rubén) è un attore di teatro, al cinema ha recitato soltanto in ruoli secondari. All’inizio volevo utilizzare un vero camionista, dopo sei mesi l’ho trovato ma non funzionava, poi in un casting ha incontrato lui. E’ stato facile lavorare con German perché ha subito capito com’era il personaggio e cosa volevo da lui. Hebe Duarte (Jacinta) non è una vera attrice, l’ho incontrata in modo curioso: era l’assistente di produzione della persona che si occupava del casting in Paraguay: il suo compito era quello di trovare Jacinta e io ho trovato lei. La piccola bambina Naia Calle Mamani (Anahi) si è rivelata sorprendente, l’ho trovata solo un mese prima delle riprese, inizialmente cercavano bambini particolari, magari guaranì visto che veniva dal Paraguay, e soprattutto volevo dei gemelli ma poi quando l’ha conosciuta è bastata lei.
È stato difficile lavorare con una bambina così piccola?
P.G. No, lei è stata magica. Molti momento sono stati spontanei, solo la scena dello sbadiglio è costruita, e tuttavia ha dimostrato di avere i tempi dell’attore: era facile seguire i suoi tempi, che poi coincidevano con quelli utili a me. La prima volta sono rimasto impressionato dal fatto che mi guardava dritto negli occhi senza alcun timore.
E il rapporto della piccola con Hebe Duarte?
P.G. È bastato un incontro e i tre sembravano già una famiglia.
A un certo punto nel film c’è una scena in cui il camionista Rubén si ferma vicino una sorta di piccolo santuario sulla strada, cos’è?
P.G. In Argentina c’è un protettore dei camionisti: El Gauchito Gil, un bandito che è un vero e proprio santo pagano, una specie di Robin Hood. C’è un mito sulla sua storia e per le strade argentine ci sono questi santuari. Robén è un personaggio che non crede in niente, non ha religione, forse ha solo il Gauchito anche se in realtà scende dal camion e va lì soltanto per fumare, è un po’ una scusa anche se non completamente.
Il film ha seguito la sceneggiatura oppure vi siete affidati anche a ciò che capitava sulla strada?
(P.G.) Tutto è stato pensato e scritto, non è un lavoro documentaristico. Alcuni momenti sono spontanei, ma sono soprattutto quelli che riguardano la bambina. Al contrario, ho sottratto un po’ di scene dalla sceneggiatura, soprattutto quelle dei paesaggi che si vedevano dai finestrini perché ho preferito soffermarmi solo sulla relazione tra i tre personaggi. Ha tolto 30 minuti dalla prima versione definitiva.
Il camion in cui i tre viaggiano non si vede mai, soltanto alla fine.
P.G. Era scritto: questo perché tutta la pellicola è basata sui personaggi e la loro relazione. Il paesaggio e tutto quello che c’è fuori lo si vede attraverso i loro occhi. Non è un road movie tradizionale perché è girato tutto all’interno del mezzo, con inquadrature ravvicinate. Voglio che il film sia visto attraverso gli occhi degli attori e non quello del regista.
È stato facile realizzare le inquadrature all’interno del camion?
P.G. Sembra un film molto facile da realizzare ma in realtà non lo è affatto. Sembra che ci sia una camera invisibile nel camion e invece ci sono tante macchine e tante auto intorno che riprendono quello che in realtà non è un vero camion: è una sorta di teatro di posa insonorizzato. Effettivamente e cronologicamente abbiamo percorso questa strada dal Paraguay all’Argentina. Ho filmato in cinque settimane, poi sono seguiti otto mesi di montaggio fatto a casa insieme a mia moglie.
E per quanto riguarda il suono?
P.G. È un film apparentemente silenzioso che invece risulta assordante, ci sono suoni provenienti dappertutto, è come se il pubblico potesse ascoltare ciò che i due protagonisti non dicono ma che si portano dentro.
Importante è stata la fase del montaggio. Ci sono voluti molti mesi per ricostruire il suono dal momento che non abbiamo usato un vero camion. L’unico suono in presa diretta sono i dialoghi dei due attori che si trovavano in una cabina insonorizzata, tutto il resto è stato aggiunto in postproduzione.

Come mai non c’è musica?
P.G. Non c’è musica nel film ma non perché non mi piaccia, non escluso di utilizzarla in film futuri, semplicemente perché la musica marca molto stati d’animo e sensazioni invece io volevo lasciare spazio al silenzio. Che poi in realtà è un silenzio solo narrativo: è un uomo che non può comunicare e che invece poco a poco si apre. L’incapacità di esternare sentimenti è il cuore del film. Il silenzio è un suo disagio e questo è un film sulla paternità e sul disagio.
E poi c’è stata la Camera d’Or a Cannes nel 2011.
P.G. Alle fine del montaggio è successo un miracolo: il premio a Cannes. È stata una grandissima sorpresa perché si tratta di un piccolo film, pensavo che avrebbe trovato distribuzione soltanto nel circuito di Buenos Aires e invece, soprattutto in Francia dove poi è uscito in 70 sale, ha avuto un notevole successo all’estero. Avevo incontrato per caso con un uomo che lavora per il Festival di Cannes e gli avevo raccontato di avere una pellicola pronta. Questo ha chiesto di lasciargliela e poi.. ho vinto.
E in Argentina?
In Argentina, nonostante non avesse avuto un gran lancio pubblicitario, per due mesi si è sentito spesso parlare del film perché continuava a vincere premi, 30 in totale (tra gli altri: il premio della giovane critica per la Settimana della critica; il premio ACID/CCAS - Associazione registi indipendenti francesi; il premio come miglior opera prima al London Film Festival; e ancora premi al Festival di Biarritz, e al Bergamo Film Meeting 2012, dove ha conquistato il secondo premio n.d.r.).
E cosa ci dice il distributore,
Paolo Minuto di Cineclub Internazionale Distribuzione?
Paolo M.. Siamo orgogliosi di aver distribuito questo film anche in Italia. La nostra è giovane realtà che ha già distribuito Aspromonte e The Parade–La sfilata e che sarà nelle sale anche con il documentario Era meglio domani, presentato con successo durante l’edizione 2012 della Mostra del cinema di Venezia.

interviste a cura di Sentieri Selvaggi (proiezione al teatro Ambra di Roma)

 

promo

Poca pubblicità, trailer solo in rete, una piccola distribuzione indipendente e… la Camera d'or a Cannes (miglior opera prima) nel 2011! La storia è quella di Ruben, un camionista che si è recato in Paraguay per rilevare un carico di legname. Il suo datore di lavoro gli ha chiesto di dare un passaggio a Jacinta che si rivela essere una giovane madre con una figlia di 5 mesi al seguito. La meta è Buenos Aires. Il silenzio domina nell'abitacolo dell'autoveicolo ma piano piano viene intaccato da poche frasi e gesti di reciproca fiducia.
Un road movie atipico, con lo sfondo di un’Argentina rurale e quasi ferita, in cui i protagonisti sono alla ricerca di loro stessi. "Le acacie compaiono nella prima scena e nel finale, il camion ne trasporta i tronchi. E poi l’aspetto metaforico: Rubén è come un’acacia, è duro, ha una corazza spinosa…" Emozioni trattenute, dialoghi all’osso, per un racconto dettato da una profonda sensibilità, apparentemente semplice, ma che si sviluppa in un crescendo di suspense dei sentimenti.

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