Ruben
è un camionista che si è recato in Paraguay per rilevare un carico di
legname. Il suo datore di lavoro gli ha chiesto di dare un passaggio a
Jacinta che si rivela essere una giovane madre con una figlia di 5 mesi al
seguito. La metà è Buenos Aires. Il silenzio domina nell'abitacolo
dell'autoveicolo ma piano piano viene intaccato da poche frasi e gesti di
reciproca fiducia.
Alla fine della visione del film molti, magari non avendo grandi
competenze in ambito botanico, potrebbero chiedersi il perché del titolo.
Le acacie sono alberi duri e dalla corteccia spinosa e non è un caso che
la prima inquadratura del film documenti l'abbattimento delle piante.
Ruben è come un'acacia, indurito superficialmente da una vita di cui
lascia trapelare solo qualche dettaglio. E, anche se addolcita da un
sorriso coinvolgente, un po' così è anche Jacinta che circa a metà film
darà una non risposta alla domanda che tutti gli spettatori si saranno
posta: chi è il padre della bambina?
Camera d'Or (cioè premio alla migliore
opera prima) a Cannes 2011 il film di Pablo Giorgelli è dettato da una
profonda sensibilità che coinvolge sia il versante maschile che quello
femminile (non è un caso che al montaggio al suo fianco ci sia stata la
moglie a scegliere con lui i campi e controcampi giusti di cui il film si
nutre). Perché questa è un'opera che può mostrare e dimostrare come il
cinema possa fare un uso accorto oppure disastroso dei silenzi e dei
cosiddetti tempi morti.
Quanti film ognuno di noi ha visto in cui i silenzi rappresentavano solo
una pretesa paraintellettualistica e i tempi morti erano davvero tali
perché nulla interveniva a offrirne il senso? In questo caso la memoria
cinefila va invece a un modello troppo spesso dimenticato o imitato
maldestramente:
Robert
Bresson.
Il grande regista affermava: " Il cinema sonoro ha inventato il silenzio."
e "Ripresa. Angoscia di non lasciar sfuggire nulla di ciò che intravedo
appena, di quel che forse ancora non vedo e potrò vedere soltanto più
tardi".
Las Acacias può essere sintetizzato in queste due frasi. Perché in esso il
silenzio diventa uno spazio fisico che potrebbe segnare una insuperabile
distanza tra due esseri umani che siedono a pochi centimetri l'uno
dall'altra oppure un territorio da conquistare con pudore palmo a palmo e
poco per volta. Ma anche ciò che si vede lascia percepire l'attenzione
data al sentire dei due protagonisti con quell'angoscia bressoniana
destinata a tramutarsi nello spettatore in una visione ulteriore in cui la
piccolissima Anahi offre ai protagonisti, con il suo agire libero da ogni
convenzione, un fragile ponte da attraversare per incontrarsi al di là di
ogni possibile retorica. |
Qui
le acacie sono sempre sullo sfondo ma sono una presenza fissa, anche se le
vediamo poco.
Las acacias,
opera prima di Pablo Giorgelli e vincitore della Camera D’Or al Festival
di Cannes 2011, è infatti un film rarefatto. Nella povertà dei mezzi sta
la sua forza (...) Questo di Giorgelli è un film che lavora sulla
sottrazione. L’essenziale, che come diceva Saint-Exupéry, è invisibile
agli occhi, qui lascia spazio al cinema in tutta la sua vera forza. Il
cinema fatto di immagini, gesti ed espressioni.
Poche parole, totalmente ininfluenti rispetto alla trama, che è esile ma
alla fine arriva dritto al cuore. La storia di un burbero trasportatore di
acacie (Germàn de Silva) che beve mate e di una madre (Hebe Duarte) con
figlia al seguito (una meravigliosa Nayre Calle Mamani) a cui l’uomo dà un
passaggio per Buenos Aires. Tutto qui.
È nella mancanza di parole, nell’assoluta assenza di musica, che il gesto
degli attori diventa forte e pieno di significato.
È
nella costante presenza del rumore di fondo che si percepisce la presenza
della vita.
È
nella carica di ogni singola immagine che il cinema diventa ancora e
sempre racconto, al di là delle acacie...
|
Perché il riferimento alle acacie nel titolo?
P.G. Le acacie compaiono nella prima scena e nel finale, il camion
guidato da Rubén (German de Silva) ne trasporta i tronchi. Sono passati
cinque anni dalla prima idea del film, solo due sono stati necessari per
scrivere. Las Acacias inizialmente era solo un titolo di servizio, la
verità è che non volevo che il titolo svelasse la storia del film. E poi
c’è tutto l’aspetto metaforico: Rubén è come un’acacia, è duro, ha una
corazza spinosa, non ci si può aggrappare su di lui. Inoltre, la cosa
interessante è che l’acacia non è un albero particolare, è comune, lo si
trova ovunque.
La prova degli attori?
P.G.
German de Silva (Rubén) è un attore di teatro, al cinema ha recitato
soltanto in ruoli secondari. All’inizio volevo utilizzare un vero
camionista, dopo sei mesi l’ho trovato ma non funzionava, poi in un
casting ha incontrato lui. E’ stato facile lavorare con German perché ha
subito capito com’era il personaggio e cosa volevo da lui. Hebe Duarte (Jacinta)
non è una vera attrice, l’ho incontrata in modo curioso: era l’assistente
di produzione della persona che si occupava del casting in Paraguay: il
suo compito era quello di trovare Jacinta e io ho trovato lei. La piccola
bambina Naia Calle Mamani (Anahi) si è rivelata sorprendente, l’ho trovata
solo un mese prima delle riprese, inizialmente cercavano bambini
particolari, magari guaranì visto che veniva dal Paraguay, e soprattutto
volevo dei gemelli ma poi quando l’ha conosciuta è bastata lei.
È stato difficile lavorare con una bambina così piccola?
P.G.
No, lei è stata magica. Molti momento sono stati spontanei, solo la
scena dello sbadiglio è costruita, e tuttavia ha dimostrato di avere i
tempi dell’attore: era facile seguire i suoi tempi, che poi coincidevano
con quelli utili a me. La prima volta sono rimasto impressionato dal fatto
che mi guardava dritto negli occhi senza alcun timore.
E il rapporto della piccola con Hebe Duarte?
P.G.
È
bastato un incontro e i tre sembravano già una famiglia.
A un certo punto nel film c’è una scena in cui il camionista Rubén si
ferma vicino una sorta di piccolo santuario sulla strada, cos’è?
P.G.
In
Argentina c’è un protettore dei camionisti: El Gauchito Gil, un bandito
che è un vero e proprio santo pagano, una specie di Robin Hood. C’è un
mito sulla sua storia e per le strade argentine ci sono questi santuari.
Robén è un personaggio che non crede in niente, non ha religione, forse ha
solo il Gauchito anche se in realtà scende dal camion e va lì soltanto per
fumare, è un po’ una scusa anche se non completamente.
Il film ha seguito la sceneggiatura oppure vi siete affidati anche a
ciò che capitava sulla strada?
(P.G.)
Tutto è
stato pensato e scritto, non è un lavoro documentaristico. Alcuni momenti
sono spontanei, ma sono soprattutto quelli che riguardano la bambina. Al
contrario, ho sottratto un po’ di scene dalla sceneggiatura, soprattutto
quelle dei paesaggi che si vedevano dai finestrini perché ho preferito
soffermarmi solo sulla relazione tra i tre personaggi. Ha tolto 30 minuti
dalla prima versione definitiva.
Il camion in cui i tre viaggiano non si vede mai, soltanto alla fine.
P.G.
Era
scritto: questo perché tutta la pellicola è basata sui personaggi e la
loro relazione. Il paesaggio e tutto quello che c’è fuori lo si vede
attraverso i loro occhi. Non è un road movie tradizionale perché è girato
tutto all’interno del mezzo, con inquadrature ravvicinate. Voglio che il
film sia visto attraverso gli occhi degli attori e non quello del regista.
È stato facile realizzare le inquadrature all’interno del camion?
P.G.
Sembra
un film molto facile da realizzare ma in realtà non lo è affatto. Sembra
che ci sia una camera invisibile nel camion e invece ci sono tante
macchine e tante auto intorno che riprendono quello che in realtà non è un
vero camion: è una sorta di teatro di posa insonorizzato. Effettivamente e
cronologicamente abbiamo percorso questa strada dal Paraguay
all’Argentina. Ho filmato in cinque settimane, poi sono seguiti otto mesi
di montaggio fatto a casa insieme a mia moglie.
E per quanto riguarda il suono?
P.G.
È
un film apparentemente silenzioso che invece risulta assordante, ci sono
suoni provenienti dappertutto, è come se il pubblico potesse ascoltare ciò
che i due protagonisti non dicono ma che si portano dentro.
Importante è stata la fase del montaggio. Ci sono voluti molti mesi per
ricostruire il suono dal momento che non abbiamo usato un vero camion.
L’unico suono in presa diretta sono i dialoghi dei due attori che si
trovavano in una cabina insonorizzata, tutto il resto è stato aggiunto in
postproduzione.
Come mai non c’è musica?
P.G.
Non c’è
musica nel film ma non perché non mi piaccia, non escluso di utilizzarla
in film futuri, semplicemente perché la musica marca molto stati d’animo e
sensazioni invece io volevo lasciare spazio al silenzio. Che poi in realtà
è un silenzio solo narrativo: è un uomo che non può comunicare e che
invece poco a poco si apre. L’incapacità di esternare sentimenti è il
cuore del film. Il silenzio è un suo disagio e questo è un film sulla
paternità e sul disagio.
E poi c’è stata la Camera d’Or a Cannes nel 2011.
P.G.
Alle
fine del montaggio è successo un miracolo: il premio a Cannes. È stata una
grandissima sorpresa perché si tratta di un piccolo film, pensavo che
avrebbe trovato distribuzione soltanto nel circuito di Buenos Aires e
invece, soprattutto in Francia dove poi è uscito in 70 sale, ha avuto un
notevole successo all’estero. Avevo incontrato per caso con un uomo che
lavora per il Festival di Cannes e gli avevo raccontato di avere una
pellicola pronta. Questo ha chiesto di lasciargliela e poi.. ho vinto.
E in Argentina?
In Argentina, nonostante non avesse avuto un gran lancio pubblicitario,
per due mesi si è sentito spesso parlare del film perché continuava a
vincere premi, 30 in totale (tra gli altri: il premio della giovane
critica per la Settimana della critica; il premio ACID/CCAS - Associazione
registi indipendenti francesi; il premio come miglior opera prima al
London Film Festival; e ancora premi al Festival di Biarritz, e al Bergamo
Film Meeting 2012, dove ha conquistato il secondo premio n.d.r.).
E cosa ci dice il distributore,
Paolo Minuto di Cineclub Internazionale Distribuzione?
Paolo M..
Siamo
orgogliosi di aver distribuito questo film anche in Italia. La nostra è
giovane realtà che ha già distribuito Aspromonte e The
Parade–La sfilata e che sarà nelle sale anche con il documentario
Era meglio domani, presentato con successo durante l’edizione 2012
della Mostra del cinema di Venezia.
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