Dallas, 22 novembre 1963. Il
luogo, la data dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy
non sono mai stati dimenticati dal popolo americano e
neppure da quanti, americani o no, furono spettatori
attoniti di quel tragico evento. Erano gli anni di uno
strano, soffuso vento democratico, costruito su uomini,
ideali e valori che sarebbero poi entrati (purtroppo)
più nel mito che nello spirito delle generazioni a
seguire. Ma erano anche gli anni della guerra fredda, di
Castro e dei missili russi a Cuba, dell'intervento USA in
Vietnam. Quale fu in tutto ciò il ruolo di John Kennedy
e soprattutto quale avrebbe potuto essere tale ruolo se i
colpi di Dallas non lo avessero fermato? E' questo
l'interrogativo primario su cui si costruisce il film di
Stone
, autore attento al peso sociale della sua
produzione (da
Platoon a Nato
il 4 luglio, da Wall Street e
Talk
Radio fino a The Doors) e qui vero crociato di una rilettura
della Storia che, rifiutando la "favola" della
commissione Warren (il caso fu sbrigativamente archiviato
con l'identificazione di Lee Oswald nell'unico, solitario
assassino), sposa la tesi di un complotto
politico-militare ordito dai vertici del governo in cui
sono coinvolti il Pentagono, la CIA, forse la mafia.
Tutto si basa sull'inchiesta (e sul libro poi pubblicato)
di Jim Garrison, rampante procuratore distrettuale di New
Orleans, che nel 1968 sostenne in tribunale la tesi della
congiura incriminando un teste chiave della vicenda. In JFK
è proprio Garrison il protagonista, rivitalizzato
dall'interpretazione "positiva" di Kevin
Kostner (ormai il divo del momento dopo il successo di Balla coi lupi e Robin
Hood) e la struttura del
film, che alterna alla ricostruzione spezzoni di
repertorio, cresce in funzione del dibattito processuale
conclusivo. I personaggi si alternano senza posa, gli
interrogatori, le ipotesi, i colpi di scena si
accavallano, numerosissimi: c'è un iniziale discorso di
Eisenhower che prelude alle responsabilità politiche
dell'industria bellica, c'è il famoso filmato amatoriale
di Zapruder che focalizzò gli istanti fatali
dell'omicidio, ci sono le deduzioni e la tenacia con cui
Garrison-Kostner costruisce la propria teoria ("un
patriota deve essere sempre pronto a difendere il suo
paese dal suo governo"), c'è un esplodere di
rivelazioni sconvolgenti che non lasciano tregua. Stone
ha l'ansia di convincere, di far combaciare, nelle tre
ore del suo serrato pamphlet, i tasselli degli anni bui
della storia americana ("fondamentalmente la
gente ha un debole per la verità") e il
risultato un'opera stilisticamente originale ma
sbilanciata da una mole improba di teoremi e corollari
politici, da un argomentare troppo verbale e concitato
nonché da un taglio da reportage televisivo, spesso
frammentario e dispersivo. Ma
JFK resta comunque
un film-evento che riscopre luci ed ombre di una passato
recente, che ci riporta con nostalgia tra le speranze e
le contraddizioni degli anni 60 e che ribadisce la forza
d'urto dei massmedia nella divulgazione della Storia,
nella ricerca di valori universali quali la giustizia e
la verità.
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