Eastwood laughs! Eastwood ride e lo fa nel modo in cui nessuno se lo aspetta, adattando un musical come fosse una commedia, senza tirarsi indietro davanti a nessuno degli stereotipi che gli capitano a tiro (a cominciare dall'identità italo-americana dei quattro protagonisti) e giocando con le convenzioni cinematografiche con una libertà che forse nessuno sospettava. Soprattutto in un regista di 84 anni! Ma è una specie di inevitabile conseguenza proprio di quella «classicità» che in tanti avevano ammirato nelle sue regie precedenti e che qui si concretizza nella più evidente (anche se sottintesa) delle caratteristiche del cinema classico hollywoodiano: mettersi in gioco ogni volta su un soggetto diverso, misurando la propria professionalità - e la propria abilità - là dove ti porta l'occasione produttiva. Hawks poteva passare dalle storie del West a quelle dell'antico Egitto, perché si dovrebbe chiedere a Eastwood di ripetersi ogni volta con il «solito» film crepuscolare e testamentario? Che abbia scelto una strada insolita (...) lo capisci dalla prima inquadratura, quando l'attore che entra in scena si mette a dialogare direttamente con il pubblico per spiegare l'atmosfera che si respirava nel 1951 a Belleville, New Jersey, sostituendosi a quello che in passato sarebbe stato affidato a una voce fuori campo più impersonale e più tradizionalmente narrativa. Non qui, dove Tommy DeVito (l'attore Vincent Piazza) impone subito il proprio protagonismo e il proprio punto di vista: è lui l'artefice del futuro quartetto vocale The Four Seasons ma anche il «grimaldello» per capire i legami con una tradizione locale fatta di amicizie «pericolose» (soprattutto quella di un boss locale interpretato con la solita gigionesca bravura da Christopher Walken), tentazioni illegali (all'inizio, entra ed esce dalla prigione) e valori «eterni» (l'amicizia, la famiglia, llil patto di mutuo soccorso). E questo imporsi al centro della scena è tanto più sorprendente se pensiamo che poco dopo la metà del film DeVito sparirà dalla storia. Senza troppi problemi di coerenza o di realismo. Il fatto è che a Eastwood in questo caso non interessa un'idea tradizionale di «realismo cinematografico» quanto (probabilmente) sperimentare un modo diverso di raccontare, più debitore dell'operetta - con i suoi recitativi e il venir in primo piano degli attori sulla scena - e più vicino alle commediole adolescenziali che andavano per la maggiore negli anni Cinquanta, «correlativo oggettivo» (per riprendere una battuta geniale del film) di quell'impasto tra sentimentalismo zuccheroso e aspirazioni romantiche che faceva sognare la gioventù dell'epoca e che la regia si incarica di sottolineare lasciando molto spazio ai volti delle fan in visibilio di fronte alle esecuzioni canore (e tra le quali si nasconde, nei panni di una cameriera, anche la figlia del regista, Francesca). (...) in fondo più che la storia di un percorso musicale Eastwood racconta le disavventure, le storie sentimentali, le invidie e i tradimenti di quattro ragazzi del Jersey, che «tra le altre cose» scalarono nei primi anni Sessanta le classifiche discografiche. E se nella seconda parte dei suoi 134 minuti, il ritmo del film sembra rallentare è perché un certo realismo documentario prende il sopravvento sui tono più scanzonato e colorato degli inizi. Certo, Eastwood non si sarebbe probabilmente sentito così libero di giocare con gli stereotipi (...) se la musica raccontata fosse stata quella che più ama, dal jazz al country al blues. Quando li aveva affrontati in passato (in film come Bird, Hankytonk Man o Piano Blues) il tono era stato ben diverso, più «vero» ed «emotivo». Qui il fatto di partire da un musical per la scena (Jersey Boys di Marshall Brickman e Rick Dice, da cui riprende alcuni dei protagonisti originali, come John Lloyd Young, Erich Bergen o Erica Piccininni, che interpreta la giornalista che fa perdere la testa a Frankie...) ha favorito in Eastwood soprattutto il gusto dello scherzo e dell'ironia. E di un piccolo sberleffo finale: dirigere un musical dove la prima scena davvero coreografata con balli e canti arriva solo sui titoli di coda. |
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera
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E alla fine arriva il (finto) musical. L'84enne Clint Eastwood avrebbe voluto dedicarsi alla quarta versione di È nata una stella, ma poi ha 'ripiegato' su Jersey Boys, dallo spettacolo di Broadway: protagonisti, i Four Seasons, poi Frankie Valli (John Lloyd Young) & The Four Seasons, un quartetto rock-pop-doowop di ragazzi italoamericani che nei 60 seppe conquistare cuori e classifiche (...): Eastwood li segue, ibridando la canaglia nostalgia con la ricerca dei valori perduti, alias solidarietà e fratellanza. Il solito Clint che malgrado tutto non ha abdicato all'American Dream: autocitazioni, Joe Pesci (sì, anche lui) e backstage di invidie, gelosie e imbrogli per il lato umano dello showbiz. |
Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano |
...Jersey Boys è l'opposto di The Wolf of Wall Street. Se Scorsese racconta e in certo modo celebra la rapacità, gli 'animal instincts', l'arte della truffa, Eastwood canta l'amicizia, la lealtà, il senso di comunità, insomma i vecchi valori. Con accenti molto convincenti proprio perché sa dal primo momento che quei valori verranno calpestati. Qualcuno lo troverà facile e nostalgico, invece è acuto e molto personale (in una scena, su un televisore, fa ironicamente capolino il giovane Clint in Rawhide. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
...Certo, Eastwood non si sarebbe probabilmente sentito così libero di giocare con gli stereotipi (...) se la musica raccontata fosse stata quella che più ama, dal jazz al country al blues. Quando li aveva affrontati in passato (in film come Bird, Hankytonk Man o Piano Blues) il tono era stato ben diverso, più «vero» ed «emotivo». Qui il fatto di partire da un musical per la scena (Jersey Boys di Marshall Brickman e Rick Dice, da cui riprende alcuni dei protagonisti originali, come John Lloyd Young, Erich Bergen o Erica Piccininni, che interpreta la giornalista che fa perdere la testa a Frankie...) ha favorito in Eastwood soprattutto il gusto dello scherzo e dell'ironia. E di un piccolo sberleffo finale: dirigere un musical dove la prima scena davvero coreografata con balli e canti arriva solo sui titoli di coda. |
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera
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Che il legame di Clint Eastwood con la musica sia forte e profondo è noto, avendo egli stesso composto le colonne sonore di alcune sue pellicole e avendone girate due dedicate al jazz: il documentario The Piano Blues e il biopic di Charlie Bird Parker. Tuttavia, sulla carta, Jersey Boys sembrava condurre il nostro in una terra straniera. Intanto il film si basa su un musical, vincitore nel 2006 di sei Tony Awards, genere che non si direbbe congeniale all'ex ispettore Callaghan; in secondo luogo, il sound del gruppo protagonista «The Four Seasons» ha poco a che vedere con il West Coast Jazz tanto caro a Clint. Eppure Jersey Boys rappresenta una vera riuscita: vedendolo si capisce quanto il rock sia debitore del gospel e del blues; e Eastwood ha mano felicissima nel delineare il quadro d'epoca, ovvero lo spaccato italo-americano anni '50 di Newark, con il suo ambiente piccolo borghese di onesti lavoratori da un lato e l'irrinunciabile patrocinio di un padrino dall'altro. In spirito di aderenza al musical originario (...), il film ripercorre gli alti e bassi fra carriera e privato (...) affidandosi per il racconto alle spesso discordanti versioni dei protagonisti. Con tranquilla sicurezza, Eastwood impagina lo spettacolo sul filo di deliziosi numeri musicali in una fotografia virata su toni ocra-marroni e senza mai fargli perdere, neppure nelle scene in esterni, il tono stilizzato. Ben assecondato da un cast che in buona parte è quello teatrale, a partire dall'ottimo Valli/John Lloyd Young; mentre DeVito è impersonato da Vincent Piazza, il Lucky Luciano dello scorsesiana serie tv Boardwalk Empire, e il mafioso Gyp DeCarlo da un indovinato Christopher Walken. Oggi che la musica pre-invasione Beatles dei Four Season potrebbe apparire datata, l'intelligenza di Eastwood è di riproporla in un registro di affettuosa nostalgia, enfatizzando gli aspetti umani e valorizzando la raffinatezza degli arrangiamenti dietro l'apparenza di semplicità. Con un pizzico di ironia, ritmo e un'incantevole freschezza. |
Alessandra Levantesi Kezich - La Stampa |
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La vera storia di Frankie Valli and The Four Seasons, ovvero Frankie Valli, Bob Gaudio, Tommy DeVito e Nick Massi: l'ascesa di un gruppo di ragazzi che provengono dalla parte sbagliata del New Jersey e che, partendo da umili origini, seppero diventare uno dei più grandi fenomeni della pop music americana di ogni tempo, con 175 milioni di dischi venduti nel mondo prima di compiere i 30 anni. Se Scorsese in The Wolf of Wall Street racconta e in certo modo celebra la rapacità, l'arte della truffa, Eastwood canta l'amicizia, la lealtà, il senso di comunità, insomma i vecchi valori. Con accenti molto convincenti proprio perché sa dal primo momento che quei valori verranno calpestati. Potrebbe sembrare facile e nostalgico, invece è acuto e molto personale. |