"L'illuminazione è una rivelazione
della mente. Nel momento di tale rivelazione lo spirito vede direttamente
la verità così come gli occhi vedono il mondo reale. E la
vede subito, senza la mediazione del ragionamento".
Augustin (Robert Powell), professore di matematica all'Università
di Heidelberg, sembra non aver visto la prima tappa "filosofica"
di Zanussi, Illuminazione
(le parole vengono dall'"enunciazione cattedratica" pronunciata
in apertura dal filosofo polacco Tatarkiewicz) ed affronta la crisi ("di
effetto non di causa"), che comincia a travagliarlo dopo una vita
agiata in possibilità economiche ed intellettive, con il raziocinio
deduttivo del ricercatore. Tutto "sembra" cominciare in un mattino
decisamente grigio (il film è girato in bianco e nero), nella sua
spaziosa stanza da letto, in un'alcova stranamente racchiusa in una specie
di balaustra: la sua compagna, Yvonne (Brigitte Fossey), lo trova appollaiato
sulla finestra a dissertare sulla libertà individuale e sul diritto
del singolo a trasgredire la norma del placido vivere borghese ("l'adattamento
alla sopravvivenza"), a tradurre i pensieri in esperienze. Lei
cerca di tagliar corto ("un realista ci vuole se non altro per
preparare la colazione a un visionario") e lui si cala mezzo nudo
dal balcone fino in strada, per risalire con noncuranza dalla porta d'ingresso...
E' solo una scintilla di uno spirito risvegliatosi alfine alla ricerca
più intima di se stesso e delle entità fondamentali che costituiscono
l'architettura della nostra esistenza: le sue lezioni di matematica traspirano
aneliti filosofici ("in matematica non si scopre ma si crea"),
ha quasi una lite con un teologo che non sa dargli risposte definitive;
va "in pellegrinaggio" a casa del suo vecchio docente col quale
da anni, per rispetto e pigrizia, ha imbastito un dialogo via magnetofono.
Qui ne conosce il confessore spirituale, un vecchio monaco ortodosso, pastore
di una comunità serba ormai ridottissima, che vive come una piccola
isola sacrale nel mondo protestante. La scoperta di un senso del sacro
profondo e per lui troppo irrazionale ne acuisce il tormento interiore:
l'inviolabilità dei vari oggetti "santi" accessibili solo
al ministro di Dio lo fa sorridere ("e per le pulizie come fate?"),
ma il sacerdote è serafico nella sua fede ("la sacralità
non può essere discontinua"), nella sua responsabilità
di impegno cristiano che non si ferma di fronte alle argomentazioni agnostiche
("perché servire Dio in una chiesa vuota?")
e che sa trovare il proprio ruolo, ascetico ma fecondo ("solo la
preghiera può prevenire i pericoli del mondo, ma così poca
gente prega").
Uno studente universitario che ha elaborato un sistema per la roulette,
riesce a ravvivare Augustin trasmettendogli un po' della propria euforia,
al ritorno vittorioso dal Casinò. Ma l'azzeccare un numero giusto
non è forse un semplice esercizio statistico? E il calcolo delle
probabilità non va a toccare di nuovo insinuantemente, il problema
della libera scelta?
L'evento critico è comunque la morte dell'antico maestro che lo
porta ad interpretare shakespearianamente la cerimonia funebre e ad urlare
al cielo le sue domande disperate davanti ad una tomba troppo muta. "Mi
dia un segno" implora e, con la mistica sollecitudine delle coincidenze,
un pezzo di neve cade dalla croce... Ma Augustin non è ancora pronto
ad accettare la purezza della risposta e razionalizza freddamente "è
il disgelo; è un processo fisico, la neve doveva cadere per la forza
di gravità". Ormai è al limite della tensione (anche
Yvonne l'ha da tempo lasciato): in una confusione spirituale totale entra
nella chiesa e tenta la risorsa estrema del sacrilegio. Tocca gli oggetti
sacri, sporca con un dito insanguinato i paramenti, ruba un'icona...
Alla profanazione non corrisponde però alcun segno tangibile e chiarificante,
almeno esternamente. Nell'intimo di Augustin insorge invero un alienante
processo schizoide e per il coma catatonico in cui cade non c'è
altro luogo che il manicomio. Quale la cura? In precedenza egli aveva assistito,
inorridito, al tentato suicidio di un malato fuggito proprio dall'ospedale
psichiatrico e quel gesto drastico non si fa strada, per fortuna, nella
sua mente; ma mentre lo psicanalista fa le sue elucubrazioni freudiane
sulla profanazione, letta come atto di gelosia e di sfida alla madre (che
se la fa con un uomo ancor più giovane di lui), Augustin percepisce
il superamento del senso di colpa come eliminazione dell'oggetto primo
della trasgressione: con un colpo di mannaia si amputa, brutalmente, il
dito sacrilego.
La scena successiva, nel soffice biancore di un paesaggio innevato, visualizza
con pacata armonia il passaggio cromatico: la nuova coscienza esistenziale
di Augustin gli fa (e ci fa) vedere il mondo finalmente a colori e il sorriso
rasserenante di Yvonne (un'interpretazione breve ma radiosa quella della
Fossey, già ammirata ne L'uomo che
amava le donne e Quintet),
che gli è di nuovo accanto, è sintomo del sollievo comune
per il ritrovato equilibrio psichico. Ma è anche equilibrio esistenziale?
Egli "è costretto" ad inginocchiarsi (almeno per allacciarsi
una scarpa), disserta ancora su matematica e vita ("il deviare
dalla normalità? E' questione di statistica"), sente forte
ora la percezione del divino ("solo lui lo può sapere"),
cita, in aperto ricollegarsi ad Illuminazione,
Sant'Agostino: "Non mi avresti cercato, se non mi avessi già
trovato".
Ma l'arrovellarsi interiore non è cessato: il suo dubbio non è
più escatologico ma deontologico; "il problema non è
se Dio esiste, ma se ha bisogno della mia vita" esclama, poi,
puntandosi la mano monca alla testa, blatera ipotesi probabilistiche sui
rischi della roulette russa... L'ultima immagine, con una risata che si
congela in un sorriso ambiguo e in uno sguardo "lontano" tra
la riflessione e l'abulia, è una grande pagina aperta di cinema,
di rara limpidezza, che fonda la propria riuscita anche sull'impeccabile
recitazione di Robert Powell.
L'attore inglese sa essere vibrante in ogni momento dell'interpretazione,
il suo personaggio sembra aggrapparsi allo spettatore per trasmettergli
la propria ansia interna ed il suo dramma esistenziale è la riprova
della grande profondità e sincerità autoriale di Krzysztof
Zanussi
.
Dopo la parentesi non del tutto felice di Da
un paese lontano egli ritorna qui, in un bianco e nero di estrema
funzionalità, al suo registro più congeniale e, con un rigore
ed una concretezza ancor più calibrati del solito, esterna la propria
ricchezza umana di uomo colto in perenne ricerca. Dedito ad un cinema "teologico"
Zanussi non si invischia nel romanticismo allegorico di Bergman ed usa
una razionalità stilistica paragonabile alla mentalità di
Augustin, ma lascia pure prorompere una feconda fiducia esistenziale che
fa risaltare il suo ruolo di portavoce dell'ormai "rivelato"
spirito polacco contemporaneo: " ...
penso che in ogni caso il tono del film corrisponda alla tensione nella
quale vivo come polacco. Nella quale ho vissuto prima del dicembre e ancor
più dopo: la ricerca di valori assoluti che non si riesce a trovare,
ma dei quali abbiamo un bisogno enorme... Non ho mai, nella mia vita, lottato
tanto per salvare un film: un film che abbiamo girato con entusiasmo, anche
se nelle condizioni più dure, perché la legge marziale in
Polonia è stata proclamata proprio durante le riprese. Abbiamo finito
in tempo malgrado le nostre condizioni psicologiche, malgrado il fatto
che durante gli intervalli si ascoltasse la radio per sapere cosa stava
succedendo in Polonia. Mai ho provato una sofferenza immediata così
forte".
Ma ciò che è affascinante in
Imperative è anche
la grande disponibilità e competenza di un autore laico che si autocoinvolge
in temi profondamente religiosi, come la sacralità, il rapporto
tra fede cattolica, ortodossa e protestante, la situazione ecumenica postconciliare:
"in questa mia favola filosofica ho
tentato di mettere a contrasto idee opposte. Volevo mostrare un genere
di mentalità e di religíosità opposto a quello occidentale
e protestante e ho ritenuto l'ortodossia adatta allo scopo. Dal punto di
vista geografico e storico la situazione era perfettamente verosimile,
inoltre la Chiesa ortodossa mostra di mantenere alti certi valori che sembrano
affievolirsi in certo cattolicesimo occidentale, il quale mostra di avvicinarsi
molto al protestantesimo... Parlo soprattutto del processo di desacralizzazione
e razionalizzazione della liturgia e del rito. La liturgia si svolge ormai
nella lingua parlata con tutti gli elementi psicologici e sociali, non
c'è più il senso del mistero perché il sacerdote,
quando celebra, si rivolge verso il pubblico e non verso il sacro, la confessione
viene abbandonata perché ormai tutto è relativo e l'assoluzione
è una cosa che uno si può dare da sé: sono tutti elementi
di influenza protestante, con lo spirito speculativo che riduce la religione
al livello parlato, celebrale. E il protestantesimo è una formazione
cristiana che corrisponde perfettamente alla società capitalistica
e industriale. Così oggi anche il misticismo nella Chiesa postconciliare
si è parecchio ridotto".
Imperative è davvero un film per il quale i termini "filosofico,
teologico, esistenziale" non suonano azzardati (Zanussi lo colloca,
con Iluminacya
- 73 - e Constans - 80, nella terna dei
lungometraggi che predilige; tutti e tre film di "ricerca interiore"),
ma lo spettro contenutistico è ancora più ampio: rimanda
a Vita familiare
(per il tema dell'incidenza sull'individuo dei diversi tipi di condizionamento,
in particolare genetico oltre che sociale) e ripropone il problema della
nazionalità di un autore (quest'ultimo lavoro è girato in
lingua inglese, per conto di una controversa produzíone cinematografica
e televisiva, in terra di Germania) che si trova a dover operare fuori
del proprio paese, non più per scelta personale ma per un totale
black-out sociale ed espressivo che lo costringe (per quanto ancora?) ad
un esilio sofferto ed estraniante: "la
mia maggiore preoccupazione riguarda la conservazione della mia identità
in condizioni così difficili. Il cinema, con la sua più tipica
caratteristica, che è fotografica, è sempre legato ad una
certa lingua, ad un certo modo di vestire, ad una certa architettura, a
un certo paesaggio. E' difficilissimo per me trovare gli ambienti o le
storie che posso raccontare al pubblico occidentale dal mio punto di vista.
Per questo nei miei ultimi progetti, nelle cose che ho scritto recentemente,
mi sono rivolto alla storia, al passato perché su queste cose sono
competente come i miei contemporanei italiani, occidentali in generale.
Della storia che abbiamo vissuto insieme possiamo parlare con lo stesso
diritto. Oppure mi rivolgo ad ambienti particolari nei quali mi sento di
casa, come quello universitario; e così è in
Imperative,
dove non c'è un ambiente realista, l'università è
un luogo letterario. Quest'ultimo è appunto un modo di sopravvivere
..."
ezio leoni
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Espressione
Giovani settembre-ottobre1982
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