Debutto
alla grande, quello di Quentin Tarantino con
Le
iene - Cani da rapina.
Certo, il genere (gangster hard) magari può non essere il prediletto dello
spettatore. Certo, la violenza costringe le anime sensibili, o
semplicemente quelle ingenue che ancora si lasciano ingannare dai trucchi
del cinema, a chiudere spesso gli occhi. Certo si grida e si parla male,
malissimo. Ma ancora una volta il mitico Monte Hellman, che ha prodotto il
film quando ormai da cinque anni Tarantino tentava invano di mettere
insieme il suo progetto, ha individuato un talento autentico: molto furbo,
molto elegante (sotto il diluvio di sangue e di ferocia), abile,
controllato.
Che Tarantino
sia un sofisticato cinefilo, oltre che un regista capace, lo
racconta anche la genesi del film, che si ispira, a trentacinque anni di
distanza, a
Rapina a mano armata di Kubrick.
Fidiamoci di quello che dice Tarantino. Di fatto la parentela si ferma
alla cronaca di una rapina fallita. Nella versione Tarantino, la
ricostruzione del disastro - la polizia ha colto i cinque componenti della
banda all’uscita della gioielleria, un uomo manca all’appello, un altro è
ferito a morte, forse tra loro c’è un infiltrato - e affidata ai
superstiti nascosti in un deposito vuoto in attesa che arrivi il boss che
li ha incaricati del colpo.
Per volontà del boss - che è l’ex Dillinger 1945 Lawrence Tierney - gli
uomini della banda non si conoscono bene, hanno agito insieme da perfetti
sconosciuti, ciascuno è al corrente solo di una parte della verità,
ciascuno ha un nome in codice: si chiamano come i colori, Mr White o Mr
Pink, e per assegnarsi i nomi hanno litigato come bambini, così come hanno
litigato, mentre prendono il caffè prima del colpo, sulla filosofia delle
mance: bisogna o non bisogna darle?
La violenza iperrealistica con cui Tarantino descrive lo scontro tra i
personaggi, che per buona parte del film si muovono tra le quattro pareti
del deposito come su una scena teatrale, è interrotta solo dai flashback
all’humour nero che raccontano come la banda è stata assemblata. E il
contrasto tra il dopo e il prima, tra gli orrori da teatro elisabettiano
che si scatenano a tempo di musica rock anni settanta dentro il deposito,
e la comica, iattante stupidità dei gangster prima dell’azione, tra lo
sfoggio esibizionistico della violenza e la pochezza intellettuale di chi
la esercita, è un gioco metà “didattico” metà viscerale. Ma nonostante la
sua ferocia, tanto eccessiva da essere a momenti insopportabile, Le iene è
soprattutto un esercizio di bravura e un progetto di stile
antinaturalistico, sia nella scrittura della sceneggiatura sia in quella
cinematografica.
A collegare ironicamente questi “bravi ragazzi” con il
mondo naturalistico di Scorsese c’è Harvey Keitel. Tim Roth è
l’infiltrato. Steve Buscemi è il
verboso teorico antimance. E un lavoro straordinario ha fatto l’operatore Andrzej Sekula, appena arrivato dalla Polonia, debuttante nel
lungometraggio, che si muove con grande eleganza tra orecchie mozzate,
bagni di sangue e conversazioni demenziali. |