Non
capita tanto spesso di poter salutare, in un primo film, una rivelazione;
ma è il caso di
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della regista franco-sviz zera Ursula Meier: strano, coinvolgente oggetto
cinematografico che comincia come una cronaca familiare prima di
trasformarsi in parabola apocalittica. Una famiglia francese vive in una
terra di nessuno ai bordi di un’autostrada dimenticata. Madre, padre e tre
ragazzi, apparentemente uniti e felici del proprio isolamento. Un giorno
la radio annuncia la riapertura della strada e un mare d’auto irrompe nel
la vita di Marthe, Michel e dei loro rampolli. Soffocato dai gas di
scappamento, violentato nella sua intimità, il piccolo gruppo scoppia: la
madre è presa in ostaggio dalle proprie nevrosi; la figlia maggiore se ne
va; quelli che restano si barricano dentro la casa, trasformata in un
bunker che somiglia molto a una tomba. Ma la trama rende appena l’idea.
Ogni film è una questione di “come”; e Ursula di creatività ne ha da
vendere, se è capace di scivolare dall’iperrealismo ad atmosfere malate,
alla Haneke, per puro effetto di stile. Qualcosa da ridire solo
sull’epilogo, dove la metafora (il nostro è un mondo impaurito, barricato
nelle sue case e nelle sue auto: ma fino a quando?) si appesantisce e la
catarsi gronda ottimismo della volontà.
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