Happy Family
Gabriele Salvatores
- Italia
2010
- 1h 30' |
Otto
personaggi in cerca d'autore. Una città grigia come Milano ridipinta in
colori squillanti da musical anni 50 o da sogno a occhi aperti. Una
sceneggiatura che si anima sotto i nostri occhi come un teatrino, con
tanto di palcoscenico e sipario, confondendosi con l'immaginazione del suo
autore Fabio De Luigi. Che a sua volta entra pirandellianamente nella sua
storia, mescolandosi ai personaggi, salvo trovarseli davanti che
protestano quando si blocca o li porta in direzioni sgradite. Mentre ogni
scena, malgrado i colori, le gag, l'allegria così ostentata da indurre in
sospetto, ribadisce i sentimenti di fondo. Malinconia, sconforto,
incertezza. Paura. Non una paura in particolare, ma il sentimento
proteiforme e appiccicoso di questi anni di plastica.
La cosa più interessante di
Happy Family
è il suo procedere per contrasto. Gag e paure. Battute e batoste. Colori e
cupezza. Come se la complessità del mondo oggi si potesse rappresentare
solo così, obliquamente. Tutti i personaggi si presentano rivolgendosi
allo spettatore. Tutti vivono di rimando, per paura di qualcosa. Di
annoiarsi, di essere felici, di puzzare, di crescere, di morire, di
svegliarsi disamorati o omosessuali... C'è l'agiato avvocato 55enne che
scopre di avere pochi mesi di vita e di non aver forse mai vissuto davvero
(Bentivoglio, segnato e toccante), c'è la moglie devota che non ne può più
di vivere di riflesso (Buy, sempre perfetta) e il secondogenito che ha
deciso di sposarsi a 16 anni con una coetanea figlia dei piccolo borghesi
e post-fricchettoni Carla Signoris e Diego Abatantuono, un grande Lebowski
del Giambellino che ha fatto mille mestieri e si lega di immediata
amicizia al compassato Bentivoglio... Solo che andando avanti l'idea di
partenza si annacqua un po' e il buonumore (forzato?) di tutti questi
personaggi e del loro creatore, con gli stridori ben dissimulati sotto i
colori e le battute, si stempera nella gradevolezza un po' facile della
commedia di Alessandro Genovesi (in scena da anni al teatro dell'Elfo).
Che Salvatores porta sullo schermo con indubitabile cura formale (chi è
cresciuto ascoltando Simon & Garfunkel cadrà colpito al cuore dalla
colonna sonora) e un amore per i personaggi e i loro interpreti che non
aggiunge molto all'idea iniziale. Non basta citare le tele di Edward
Hopper e Balthus, o i gruppi di famiglia di Wes Anderson (I
Tenenbaum), per sviluppare fino in
fondo l'ambivalenza e le inquietudini iniziali. Se sogno doveva essere, ci
voleva uno scatto di fantasia in più. È bello il colpo di fulmine
"impossibile" tra Fabio De Luigi, che in fondo è l'autore, e la figlia di
Buy e Abatantuono, l'inedita e assai intonata Valeria Bilello. Però
Happy Family
tira il sasso e nasconde la mano, fermandosi alla superficie di un
dispositivo che poteva andare molto più lontano. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
Il
tema dell'autore fittizio – uno sceneggiatore nullafacente interpretato da
Fabio De Luigi - che racconta la storia rivolgendosi agli spettatori,
salvo poi discutere con i personaggi che hanno nei suoi confronti un sacco
di pretese,ha illustri precedenti sia filmici che teatrali. E non a caso
una delle sue creature - il padre di famiglia strafattone Diego
Abatantuono - lo apostrofa chiamandolo, in modo molto milanese, «Uhèi,
Pirandello!». Detto questo,
Happy Family
è una delizia. È molto lieve, molto breve (per una commedia, di solito, è
un pregio) e si beve come un calice di vino frizzante doc. De Luigi lo
introduce con garbo, strega i cuori di tutti gli over 40 scegliendo come
colonna sonora alcune canzoni di Simon & Garfunkel (diverse da quelle de
Il laureato,
state tranquilli), si concede una digressione spassosa con la scena della
massaggiatrice cinese (si accettano scommesse su cosa significa «tiloletetteditela»)
e poi entra con decisione nella storia [...] La «famiglia felice» del
titolo nasconde ansie e dolori a profusione, e non a caso De Luigi, nel
prologo, dedica il film a tutti coloro che hanno paura: «di votare e di
volare», di amare o di odiare, del prossimo o di se stessi, di tutto. Il
duetto Abatantuono-Bentivoglio, che è il vero cuore del film, è una
riflessione sulla morte, ed è toccante che a metterla in scena siano i
vecchi amici e complici di
Marrakech
Express
e di
Turné. Non è
forzato leggere
Happy Family
come una riflessione agrodolce sulla famiglia – artistica e sentimentale -
che Gabriele, Diego, Fabrizio e varie altre persone sono state nel corso
dei decenni: una volta giravano film dedicati «a coloro che stanno
scappando», oggi hanno tutti superato i 50 e forse hanno voglia (e
paura) di fermarsi. Nel tono e nelle immagini (di Italo Petriccione,
bravissimo)
Happy Family
ricorda spesso i film di Wes Anderson. Sia chiaro, è un complimento. |
Alberto Crespi -
L'Unità |
promo |
Due sedicenni
vogliono sposarsi, e i loro genitori - gli alto-borghesi Fabrizio
Bentivoglio e Margherita Buy, e i più sgarrupati Diego Abatantuono
e Carla Signoris – sono comprensibilmente perplessi. Le fila si
tirano durante una cena alla quale si auto-invita (lui può farlo)
l'autore, Fabio De Luigi: anche perché si è innamorato della
figlia maggiore di Buy e Bentivoglio, la bella Valeria Bilello,
pianista dai capelli rossi ossessionata dall'idea di puzzare di
sottaceti. Sul più bello, DeLuigi decide che il film è finito, e
partono i titoli di coda: ma saranno i personaggi a richiamare il
proprio «Pirandello», e a chiedergli a furor di popolo di
continuare... Una commedia lieve e frizzante che Salvatores
conduce con garbo, accattivandosi il pubblico con le canzoni di
Simon & Garfunkel; ma la «famiglia felice» del titolo nasconde
ansie e dolori e non a caso De Luigi, nel prologo, dedica il film
a tutti coloro che hanno paura: «di votare e di volare», di amare
o di odiare, del prossimo o di se stessi, di tutto. |
cinélite
TORRESINO
all'aperto:
giugno-agosto 2010