Vero
come un documentario, emozionante come un romanzo di formazione, lirico e
avventuroso come l'Odissea, epico come un film di John Ford . E
intessuto di storie e esperienze reali che il regista (esordiente!) ha
raccolto facendo più e più volte il cammino dei suoi personaggi, tra il
Guatemala e la frontiera degli Usa. Accumulando per dieci anni incontri e
racconti, senza fermarsi ai nudi fatti ma estraendo il senso profondo e le
diverse visioni del mondo che quelle testimonianze portavano con sé. Fino
a mettere insieme un immenso arazzo di storie, sogni, speranze, sventure,
che sono l'ossatura di questo film incredibile, e insieme un condensato di
tutto ciò che il bombardamento di informazioni in cui viviamo ci mette
sotto gli occhi ogni giorno e al tempo ci impedisce di capire. Se credete
di avere già visto
La gabbia dorata
perché parla di migranti e frontiere, toglietevelo dalla testa.
Diego Quemada-Diez, alle spalle un lungo tirocinio come operatore per
Loach, Stone ,
González Iñárritu ,
Spike Lee ,
non informa, non denuncia, non ricatta a suon di infamie e di orrori,
anche se non nasconde nulla di ciò che può capitare, ma avvince,
sorprende, commuove lavorando sui suoi protagonisti adolescenti, scelti
davvero nelle bidonvilles del Guatemala, e su quanto hanno di più prezioso
e universale. Le emozioni della loro età, lo stupore, l'incoscienza, la
paura, la durezza e la purezza che accompagneranno Juan, Sara, Samuel e
l'indio Chauk, personaggio magnifico quanto incomprensibile perché parla
solo tzotzil, la lingua del Chiapas, nella loro odissea contemporanea che
è insieme terribile e meravigliosa. Terribile per ciò che accade.
Meravigliosa perché fra violenze e ruberie, treni carichi di disperati e
paesaggi stupefacenti, Quemada-Diez non perde mai di vista l'aspetto
iniziatico di un viaggio che a quelle latitudini è quasi un rito di
passaggio. La prova che c'è dell'altro, dentro e fuori di loro, per cui
forse vale la pena vivere e magari morire. Anche se oggi è così raro
accorgersene, specie nel nostro mondo, e ancora più difficile riuscire a
raccontarlo.
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Se
il cinema è una finestra aperta sul mondo,
La gabbia dorata
di Diego Quemada-Diez ci mostra qualcosa da cui forse vorremmo distogliere
gli occhi, ma sarebbe dovere di tutti conoscere. È cinema della realtà,
cinema autentico, girato tra persone vere, dentro situazioni
concretissime, dove la macchina da presa ritrova una delle sue funzioni
primarie: mostrare qualcosa che non si conosce, alzando il sipario su un
mondo ignorato. Quello al centro del film, opera prima di un ex assistente
alla fotografia che ha lavorato per
Ken Loache Isabel Coixet
e come operatore alla macchina per Alejandro González Iñárritu ,
è il mondo che scoprono tre adolescenti guatemaltechi decisi a lasciare la
povertà in cui vivono per cercare lavoro negli Stati Uniti. Un viaggio che
li costringe ad attrav ersare il Messico e che si rivelerà ben più
drammatico di quanto potessero immaginare. Poche, efficacissime scene ci
fanno fare la conoscenza di Sara, Juan e Samuel. (...) Praticamente non
c'è una sola battuta di dialogo, non scopriamo niente della loro vita o
delle loro famiglie, ma in fondo sono informazioni che non servono (...)
il regista (che ha scritto la sceneggiatura dopo un lavoro di ricerca e
documentazione che è durato diversi anni) vuole limitarsi alla pura
«registrazione» delle loro azioni. Bastano gli sguardi segnati dalla vita
e dalla miseria per farci capire quello che le parole avrebbero solo reso
a rischio retorica. (...) Un viaggio che per la maggior parte si svolge
sui tetti dei vagoni merci che attraversano il Paese e che Quemada-Diez ci
restituisce in tutta la sua epica quotidiana, fatta di sofferenza,
privazioni ma anche di pericoli e tragedie. (...) Ma quello che in un film
di «avventure» potrebbero assomigliare a delle belle trovate di
sceneggiatura per aumentare la tensione, qui si rivela per quello che è
veramente: il volto vero e tragicamente quotidiano di una società dove
sembra esistere solo la sopraffazione della forza e delle armi. Perché il
regista, che si è fatto raccontare queste situazioni da chi le ha davvero
attraversate, le restituisce sullo schermo senza il minimo orpello
spettacolare, preoccupato solo di trasmettere tutto il dramma di chi è
condannato ad accettare in silenzio il sopruso e l'umiliazione. Non c'è
nemmeno la «tragedia darwiniana» del più forte che sopravvive al più
debole: la vita di questi disperati migranti è legata al caso, alla
fortuna, alla disperazione, alla speranza. A un certo momento un raggio di
umanità e di morale illumina le azioni di qualcuno (si vedrà nel film come
e quando) ma è un comportamento che trova una giustificazione solo nel
barlume di umanità che un adolescente può portare dentro di sé. È l'unico
momento «positivo» di tutto il film, che il caso (e la cattiveria degli
uomini) si incaricheranno di vanificare. A Quemade-Diez non interessava
dirigere un film che alla fine offrisse un qualche prevedibile happy
ending, voleva solo immergere lo spettatore nella realtà senza difese o
protezioni: per questo ha scelto solo attori non professionisti (tutti i
ragazzi sono bravissimi) e per questo ha raccontato una storia «normale»,
come ne succedono ogni giorno in Messico e al confine con gli Stati Uniti.
Perché solo così poteva girare un film vero. E indimenticabile.
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