La febbre
è una commedia arguta e simpatetica sugli italiani. Sui mediocri per
vocazione, povertà di spirito, dabbenaggine e furbizia di basso profilo e
sugli onesti, sui sinceri, su chi non crede che vivere affidandosi alla
fantasia, all'entusiasmo, al rispetto delle regole e degli altri sia un
valore devitalizzato e superato. È una commedia agrodolce su un mondo che
non ha rispetto dei morti e della propria memoria (scegliere come uno dei
punti focali del racconto e della messa in scena un cimitero comportava
moltissime insidie, aggirate e superate in modo intelligente e brillante).
È la piccola, garbata, amara, perspicace sinfonia di una bella città di
provincia, Cremona (l'Italia, per fortuna, anche quando si imbelletta da
metropoli conserva nel reticolo architettonico e antropologico dei
quartieri le forme familiari e gli odori forti di un'immensa provincia). È
la storia di un disincanto, di una momentanea sconfitta e di un mettersi
sulle linee laterali di un campo di gioco (sociale, economico e politico)
del quale non si condividono né l'interpretazione dei regolamenti né le
decisioni arbitrali. È un apologo lucido e divertente sul desiderio,
legittimo, di autosospendersi dalla Repubblica e di rinunciare, per
protesta, ai diritti-doveri della cittadinanza. Alessandro D'Alatri
ha
diretto e scritto un film che ha la piacevolezza, le malinconie, le
asprezze sorridenti, il calore della classica commedia all'italiana. In un
film in cui uomini e donne (gli interpreti sono bravi, alcuni bravissimi,
e Valerla Solarino unisce alle doti d'attrice un'eccezionale presenza
magnetica) stentano a trovare la porta di entrata e di uscita da una
realtà e continua a trasformare, a temperare le punte più aguzze e
irregolari, a sedare, a imbrigliare. Mario Bettini (un bel nome da uomo
qualunque, ma non qualunquista o in vendita, interpretato da un ottimo
Fabio Volo che, a differenza di molti altri attori deportati dalla Tv ha
lasciato negli studi televisivi il suo repertorio) è un giovane geometra
che coltiva con alcuni amici l'idea di aprire un locale e, mentre
procedono i lavori di allestimento dello spazio preso in affitto, un
concorso sostenuto anni prima gli regalano un'assunzione (un dono che
nell'era selvaggia del precariato e della flessibilità fa pensare a
un'Italia da coniugare al trapassato remoto) come impiegato del Comune. Lì
trova un esemplare, molto diffuso, di stupidissimo mortificatore sociale.
Un imbecille di burocratico successo che si accanirà contro la sua volontà
di lavorare per il bene di tutti e contro il suo talento per la vita. |