Avremo
ancora il coraggio di lamentarci del cinema? Ormai non passa settimana
senza che escano film belli o interessanti, tanto da far scarseggiare il
tempo e gli euro necessari per vederli. Però
Dogville
appartiene alla categoria "cinquestelle lusso": perderlo è vietato (pur
col rammarico che la distribuzione lo abbia accorciato di 40'). Se
von
Trier
ci stupisce a ogni film, non è mai così geniale come quando si
aggira per il cinema della crudeltà: a qualcuno la sua rabbia potrà dare
fastidio, ma si tratta di un fastidio salutare. E Lars è un genio cattivo.
Basta vedere il modo in cui
Dogville tra(sgre)disce le aspettative
del pubblico; sia sul piano della storia, sia nel modo di raccontarla.
Inseguita dai gangster, la dolce Grace giunge nel borgo sperduto di
Dogville e trova la protezione dei tranquilli americani che vi abitano. In
cambio, partecipa ai lavori della comunità. Dovrà subire una dura
delusione: poco a poco i buoni samaritani cominciano a esigere da lei
prestazioni in natura di vario genere, sottoponendola a oppressione
psicologica, economica, sessuale secondo la logica del profitto cui anche
i poveri sono devoti. Proprio in nome di tale logica gli abitanti del
villaggio saranno puniti orrendamente, quando la nivea fanciulla deciderà
di assumere il proprio ruolo sociale. Il soggetto sembra riproporre le
eroine sacrificali dei film precedenti di von Trier, ma poi ne ribalta la
personalità quando rivela la vera Grace. Il ribaltamento che sorprende di
più, tuttavia, riguarda il linguaggio.
Dogville si situa
all'opposto di "Dogma", il manifesto del '95 dettato da Lars che ora,
demiurgo volubile, dinamita le regole imposte prima. Invece di luoghi
autentici e luce naturale, una scelta scenografica radicale dove gli spazi
sono disegnati sul suolo come nel tabellone del Monopoli e rappresentano
ambienti (le case, la chiesa, la scuola, i negozi, perfino la sagoma di un
cane) disincarnati, privi di fisicità. Brechtianamente, il film è diviso
in nove capitoli e un prologo e raccontato dalla voce di un narratore
onnisciente. Sono gli strumenti linguistici di un nuovo corso, che
l'autore chiama "cinema fusionale" (cinema+teatro+letteratura), funzionali
alla realizzazione di un'atroce, magnifica parabola sui rapporti sociali.
Circondandola di un grande cast, von Trier sfrutta al meglio il vero
talento di Kidman: mostrare un viso d'angelo e far affiorare per gradi
tutta la ferocia del personaggio. C'è da augurarsi che la "trilogia
americana", concepita dal cineasta, prosegua con lei. |