Sorprendentemente
non le solite chiacchiere assurde e surreali tra due personaggi
altrettanto assurdi, come in quasi tutti i film precedenti di Todd
Solondz, ma una danza sgangherata e goffa in un’atmosfera di forzata
allegria, tipica di una festa di nozze, apre il suo ultimo film
Dark Horse, spiazzando le aspettative dei suoi cultori affezionati.
Ma dopo pochi minuti la macchina da presa focalizza la nostra
attenzione proprio su due assurdi personaggi e sul loro dialogo
altrettanto assurdo. “Non sembra un film di Solondz” diventa allora “è un film di Solondz,
ma le cose sono un po’ cambiate”.
Dopo aver deciso di abbandonare il cinema per le difficoltà incontrate
con la distribuzione del suo ultimo film
Life During
Wartime, il più dark dei registi indipendenti americani torna
sugli schermi, speriamo non solo dei Festival, con una commedia che,
pur abbandonando i temi più duri e imbarazzanti degli altri film, si
pone pur sempre come satira pungente della società americana, mettendo
lo spettatore di fronte alla tristezza della normalità e al penoso
squallore del presunto benessere, con i toni sferzanti della sua
comicità yiddish.
È vero che in questo film, come ha dichiarato l’autore “There’s no child molestation, rape or masturbation” , ma c’è pur sempre la
famiglia al centro della sua rappresentazione, la famiglia che
“uccide”, che priva l’individuo della possibilità di realizzarsi: non
un’adolescente in questo caso, come in
Palindromes, ma un trentenne, che non è riuscito a crescere, un Peter
Pan sovrappeso (uno splendido Jordan Gelber, che si è visto
recentemente in Boardwalk Empire), che vive ancora in famiglia (e che
famiglia!) con la sua collezione di giocattoli e la sua cameretta da
adolescente, che lavora nella ditta del padre (Christopher Walken),
spietato nel manifestargli continuamente, con l'inquietante
inespressività dello sguardo, la sua delusione e passa le serate a
sfidare a backgammon la madre, una plastificata Mia Farrow, che, per
consolarlo dei suoi insuccessi, non trova di meglio da dirgli che
frasi tipo: “in ogni famiglia c’è il successo e il fallimento. Ecco Abe, tuo fratello è il successo e tu sei il fallimento”.
Abe si porta dietro fin dall’infanzia il soprannome Dark Horse
(Ronzino): è il cavallo sbagliato su cui puntare, ma è pur sempre un
cavallo che ha delle potenzialità. Quello che Solondz ci racconta è
come egli, a un certo punto, abbia tentato di far emergere queste
potenzialità, prima facendo una avventata proposta di matrimonio ad
una sua coetanea Miranda (Selma Blair, già protagonista di
Storytelling), che di problemi ne ha tanti quanti lui (dopo un fallito
tentativo di affermarsi come scrittrice a New York, ha fatto ritorno
in famiglia, è depressa, malata di epatite B) e poi licenziandosi
dalla ditta del padre.
Ma, come tutti i personaggi di Solondz, Abe è un loser, un perdente e,
in modo più esplicito che in altri film, qui l’autore lo dichiara,
dando alla storia di Ronzino una svolta sorprendente e drammatica, ma,
nello stesso tempo, aprendo uno squarcio in questa gabbia gelida e
opprimente che lo imprigiona e offrendogli una via di scampo con la
creazione di un mondo parallelo, in cui le fantasie dell’inconscio si
incarnano in quello che è il vero personaggio chiave nella vita di Abe:
Marie (l’attrice di teatro Donna Murphy), che, essendo l’unica che lo
capisce veramente, può essere contemporaneamente la sua collega, la
sua amante, sua madre, sua moglie, sua sorella.
Ancora quindi un ritratto di family-life surreale e disperato, in cui
il tragico si alterna e si sovrappone al comico, con in più però un
tono malinconico, che emerge, forse per la prima volta in Solondz,
nella descrizione del disagio interiore del suo personaggio
sopraffatto dal senso di inadeguatezza di chi non è in grado di stare
al passo coi tempi.
Se è vero che la scelta di una situazione più “normale”, così come
l’adozione di toni più smorzati e di una costruzione narrativa più
lineare, rispetto agli altri suoi film, possono essere viste come
dettate dalla volontà di andare più incontro allo spettatore, ciò non
significa che si tratti di un film minore. Una regia che procede per
sottrazione, rispondendo a un’esigenza di essenzialità e minimalismo
funzionali alla dimensione dura, cinica del racconto, una scenografia
plastificata negli interni con colori netti e contrastati e negli
esterni rappresentativi della società consumistica, una sceneggiatura
strepitosa, fatta di dialoghi fulminanti, velocissimi, surreali
confermano ancora una volta Solondz come uno dei registi più rigorosi,
intelligenti e graffianti del cinema indipendente americano.
|