Presentato
Fuori Concorso (in anteprima mondiale) in occasione del Premio Pietro
Bianchi, fiore all’occhiello del Sindacato Nazionale Giornalisti
Cinematografici Italiani, il documentario di Gianfranco Giagni è un
puntuale e gradevole, specie dal punto di vista visivo, excursus sulla
vita e la carriera di Dante Ferretti, grande artista e scenografo di
origine marchigiana che nella sua lunga carriera, lavorando in Italia
ed all’estero, ha meritato, nel tempo, due Oscar – rispettivamente per
The Aviator
di Scorsese,
Sweeney Todd
di Tim Burton - tre Bafta Awards, cinque David di Donatello e ben
dodici Nastri d’Argento.
È già stato presentato sulle reti televisive italiane alcune settimane
fa, confrontandosi così con un altro tipo di pubblico che pare aver
molto gradito il veloce passaggio dal grande schermo.
È lo stesso Dante, insieme con la sua bravissima alter ego e
collaboratrice Francesca Lo Schiavo, a condurre lo spettatore nei
luoghi che hanno fatto da cornice ai più importanti momenti della sua
vita personale e professionale: dalla sua Macerata d’infanzia agli
inizi della sua carriera sempre nelle Marche sino a Cinecittà dove
insieme con lui entriamo nel suo studio in cui sono raccolte e
conservate tutte le…vestigia del suo affascinante lavoro, dagli
splendidi disegni da cui si può ben vedere la sua grande arte, la sua
facilità nell’abbozzare da subito piccoli capolavori su carta che
diverranno plastici, scenografie, décors tra i più geniali – benché a
volte creati da materiali poveri o da idee all’apparenza quasi banali
- fino ai premi ricevuti di cui si diceva. Da rilevare la grande
cultura artistica e letteraria che traspare anche dai soli schizzi, a
volte: i giganti che cita spesso e sulle cui spalle ama stare hanno i
nomi di Piranesi, di Escher – che senza il primo non avrebbe potuto
esistere – e in mezzo il simbolismo di Moreau, il Surrealismo e l’Art
Nouveau del TetiTeatro di Alberto Martini e poi tanti altri
Il documentario è arricchito da sequenze di alcuni dei più emozionanti
film cui ha contribuito e da immagini di repertorio, alcune inedite,
interviste e backstages che aiutano a ricostruire a tutto tondo
l’anima e la carriera di un artista che non ha eguali. Tra gli inizi
della sua lunga carriera ci sono anche le ancor ‘semplici’
collaborazioni con grandi registi come Elio Petri (Indagine
su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto,
La classe operaia va in paradiso...)
fino ad arrivare ai suoi lavori sofisticatissimi, geniali, ideati
addirittura contro le leggi della…fisica, come il già citato
The Aviator, per cui costruì in
studio la carlinga e l’interno di un grosso aeroplano, dandone una
perfetta idea di realismo.
Tra gli intervistati:
Martin
Scorsese, che ironicamente ammette di non
parlare bene italiano ma di capirsi con Ferretti comunque, quasi un
linguaggio atavico si fosse instaurato tra loro, fatto anche solo di
gesti, a volte, ma pur sempre fecondo. Come fu pure per
L’età
dell’innocenza, la ‘bella copia’
da Senso di Visconti, specie nelle scene di interni, anche se
Ferretti, molto filologicamente volle comunque rispettare il romanzo
di base della Wharton.
Poi un entusiasta Leonardo Di Caprio che lo considera ‘simply a
genius’. Simpatiche le testimonianze di J.J.Annaud per
Il nome della
rosa, del montypithoniano Terry Gilliam che, mèmore del giovanile e
lungo lavoro di Ferretti con
Fellini – feticcio/mèntore
cinematografico di molti anglo-americani – lo vuole assolutamente per
il suo
La leggenda del re pescatore e poi gli
stilisti del più grande Made in Italy come Valentino, Carla Fendi,
Karl Lagelfeld – perché moda e cinema ormai sono un connubio
imprescindibile, sais sa.
Alla fine, ragionando su quanto visto della sua vita e carriera, la
cosa che più commuove, come capita per tutti i grandi che fanno
dell’umiltà la loro bandiera, è ricordare come lui sia approdato a
questa sua bella ed unica arte:
Gli Argonauti di Don Chaffey del 1962
– confessa – è il film della mia vita: senza quella pellicola, molto
probabilmente, non avrei fatto il mio lavoro e forse si può capire il
perché:
“Il film – come scrisse M. Morandini – è un eccellente e divertente
esempio di cinema fantasticomitologico. Determinante il contributo di
Ray Harryhausen, mago di trucchi. Suggestive le musiche di Bernard
Hermann. E che ritmo. Una
meraviglia!”.
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