...Due
notti fuori sono troppo costose, per una coppia o peggio ancora una
famiglia, e allora il venerdì sera si sta a casa, magari a preparare i
panini per il viaggio del giorno dopo. È questo il tipo di dettaglio che
differenzia
Cosa voglio di più
da una trita storia di passione, quella fra l'impiegata Anna (Alba
Rohrwacher) e il tuttofare Domenico (Pierfrancesco Favino), entrambi già
in coppia, lui anche con due figli piccoli, che si incontrano, si invadono
le vite e consumano la loro storia fra bugie e sotterfugi. Niente di nuovo
sotto il sole, la differenza la fanno però i soldi: «Sempre di quelli si
finisce a parlare», lamenta lei.
«Per forza», dice lui, perché mancano a entrambi, come mancano a
(quasi) tutti, in questa Italia della crisi negata.
Ma non è solo la mancanza di soldi a smorzare i colori alla storia di Anna
e Domenico. È anche la mancanza di speranza, di capacità di progettare un
futuro diverso. È la frustrazione nel "volere qualcosa di più", come dice
il titolo, e non andarselo a prendere, se non di sfuggita e di nascosto.
La sensazione è che non si parli solo di due individui, ma di una nazione,
che si descriva un clima che circonda tutti noi. E viene subito in mente
il paragone con la filmografia passata dello stesso Soldini
: soprattutto
con quel
Pane e tulipani del già lontano 1999
che vedeva protagonista una donna sposata e con figli pronta a seguire le
sue passioni con ottimismo, persino con una punta di incoscienza, e
soprattutto senza sensi di colpa. Il titolo di quel film parafrasava il
"vogliamo il pane, ma anche le rose" che ripetevano le operaie del
Massachusetts nel lontanissimo 1912 citando Rosa Luxemburg e che è
diventato anche
il titolo di un film di
Ken Loach
– curioso, perché
Soldini, da cantore delle solitudini e dell'alienazione dell'epoca
moderna, sta diventando il Ken Loach italiano, prima con i disoccupati di
Giorni e nuvole
e ora con i precari di Cosa voglio di più, che fin dal
titolo sembrano non meritarsi niente di meglio di quello che hanno,
abituati come sono ad accontentarsi, a restringersi dentro confini sempre
più angusti.
Ma, come dice Stefano Benni, prima o poi l'amore arriva, e ti catapulta
fuori da quei confini, rendendo impossibile rientrarci – emotivamente, si
intende, perché la realtà contemporanea, almeno quella italiana, sembra
fare di tutto per farci stare "bboni, bbonini", come direbbe Costanzo.
È allora che ci accorgiamo che la nostra casa è sempre più spesso arredata
da mobili componibili per i quali, come dice Giuseppe Battiston, il
personaggio più commovente del film, «non ci sono neanche le viti»,
costruendoci intorno (anzi, costringendoci a costruircele da soli)
esistenze precarie, perennemente scomponibili, concepite per la breve
durata.
Questa è un'epoca in cui gli uomini, simbolicamente evirati dalla
precarietà lavorativa, si ammazzano di fatica mentre le loro donne
vorrebbero solo che «ci fossero» (per esempio alla nascita di un figlio),
in cui ci si consuma (noi "consumatori") inseguendo le offerte del
supermercato, in cui una divorziata quarantenne è costretta a tornare a
vivere con i genitori. In questo contesto la vitalità del sesso, troppo a
lungo compressa (in una scatola dell'Ikea, probabilmente), che «non si
immaginava così violenta», che è dolorosa, egoista e sfacciata perché
"vuole di più" in un'epoca in cui farlo pare un'eresia, genera un vortice
di distruzione... E se ci si abituata a rinunciare a tutto, dalla
partenza del venerdì all'amore non inscatolato, si corre il rischio di
implodere, come individui ma anche come società. |