La breve
vita di Ian Curtis, leader dei Joy Division morto suicida a 23 anni.
Dirige il fotografo di gruppi e rockstar Anton Corbijn: e ne ricava un
film bello e doloroso, profondo e struggente. Innanzitutto lo ha
girato in un bianco e nero "d'epoca", che fissa sulla pellicola l'Inghilterra di fine anni 70 nello stile del Free Cinema. Anche il
protagonista è nella linea dei "giovani arrabbiati" della letteratura
e del cinema dell'isola; con un po' di Rimbaud, in sovrappiù, che ne
fa un poeta maledetto e sacrificale come Kurt Cobain e altre
sventurate icone della musica rock. E tuttavia
Control non è un
"santino", ma un ritratto umano psicologicamente plausibile.
Epilettico, afflitto da una sensibilità che lo condanna a un'esistenza da scorticato vivo, Ian si sposa non ancora ventenne con
Debbie, diventa padre, lavora di giorno e la notte dà concerti con la
band. Compie il gesto più pericoloso della sua vita innamorandosi di
una giornalista dilettante, Annik: incapace di soddisfare le
aspettative di tutti, perderà definitivamente il controllo. |
È lo
scorrere del tempo il filo conduttore di
Control.
Meglio,il suo filo conduttore è l'angoscia con cui Ian sta nel grigio
di un presente che non vince il passato, e che non si apre al futuro.
Grigio, cioè in bianco e nero, è del resto tutto il film. Corbijn ha
dichiarato di ricordarsi così i Joy Division, che conobbe e fotografò
nel 1977. Vestivano «prevalentemente di grigio o giù di lì», racconta
in un'intervista. Anche le loro foto sulle riviste erano in bianco e
nero, continua. E fitte d'ombre e di grigi sono, nel film, le case e le
strade di Macclesfield, vicino a Manchester. Vuota di colore è appunto
la vita di Ian (Sam Riley), che Corbijn
inizia a raccontare dal 1973.
Cita a memoria William Wordsworth, il futuro leader dei Joy Division.
Nella sua camera, sopra un tavolino, ci sono libri di altri poeti. Lui
stesso scrive, e con una commozione che va oltre il pathos di un
adolescente introverso. D'altra parte lo è, adolescente e introverso.
In più ha quella tenerezza indifesa che lo accompagnerà fino alla
decisione ultima. Hate, odio: così porta scritto sul giaccone scuro,
mentre cammina per Macclesfield, verso l'agenzia di collocamento per
handicappati presso la quale lavora. Ma non odia. Al contrario,
partecipa al dolore degli uomini e delle donne che ogni giorno tenta
di aiutare. Vi partecipa tanto, da prenderne talvolta il peso su di
sé. Che cos'è allora quell'odio esibito come uno slogan, se non una
difesa paradossale, o anche l'"annuncio" di una segreta, tenace
propensione a volgere contro se stesso la crudeltà oggettiva
dell'esistere? Come accade agli adolescenti, ma con una radicalità
tragica inusuale, Ian cerca di sfuggire all'angoscia trasformandone il
dolore imposto e subito in una propria scelta, libera e consapevole.
Questo è la sua musica: un urlo che si oppone al mondo, e che ne
celebra l'assurdo nel tentativo disperato di affrancarsene. […]
Non ancora ventenne, Ian si innamora. O almeno immagina d'amare.
Poi, forse obbedendo alla volontà segreta di farsi del male, precipita quell'amore ipotetico nella normalità della vita, senza tener conto
della sua terribile serietà. Si sposa, e subito dalla sua Deborah
(Samantha Morton) vuole un figlio. Tutto avviene troppo in fretta, in
modo troppo meccanico, per non lasciarci sospettare quello che
seguirà […]
Torna comunque a innamorarsi, il piccolo poeta dell'angoscia di stare
al mondo. E forse è amore, quello che prova per Hannik Honoré (Alexandre
Maria Lara). D'altra parte, quest'amore nuovo acuisce il disamore di
Ian per Deborah, e insieme il rimorso che gliene viene. Per lui non
c'è via d'uscita. Quanto più ama Hannik, tanto più soffre per Deborah,
cioè per il passato che incombe sul presente. Quanto più soffre per
Deborah, tanto più è incapace di vivere l'amore per Hannik, cioè per
il futuro che il presente continua a rifiutare. E così, senza rimedio
tenero e indifeso, il 18 maggio 1980 Ian Curtis si impicca, forse
immaginando di riprendersi il "controllo" sulla vita, e sulla fatica
d'esistere. |