Avvolti
da una notte buia squarciata solo dai fari di tre autovetture,
sperduti nel panorama monocorde delle colline dell’Anatolia, ecco, in
un viaggio alla ricerca di un cadavere e alla scoperta di un
microcosmo di varie umanità, l’avventura (cinematografica) “da
raccontare”, per i protagonisti e per lo spettatore.
C’è stato un breve prologo semi-urbano (marginalmente essenziale
nell’economia del racconto), ma l’impatto figurativo di
C'era una volta in Anatolia
è tutto affidato a quelle luci che fendono il buio, al tormentato
andirivieni tra una collina e l’altra del manipolo d’uomini “in
missione”: Cemal il medico, il procuratore Nusret, il commissario
Naci, accompagnati da militari, funzionari e manovali nonché
dall’assassino e dal fratello, suo complice.
Il ritrovamento del corpo è difficoltoso sia per il ripetersi di
paesaggi sempre uguali, sia perché il reo confesso sembra non trovare
riferimenti nella memoria di un omicidio segnato dall’alcool; ma il
prolungarsi delle ricerca dà modo a Nuri Bilge Ceylan (Uzak,
Le tre scimmie) di
sviscerare, tra chiacchiere e ricordi, le tormentate psicologie dei
protagonisti. Cemal vive una sofferta esistenza di divorziato, il
procuratore, vedovo, prova a rileggere con bonario distacco il dramma
lancinante del proprio vivere, Naci trasferisce sul lavoro le
tensioni di una travagliata situazione familiare.
La sosta obbligata presso un villaggio è l’occasione per un ulteriore
momento di riflessioni e dialoghi, e per una parentesi di sublimazione
introspettiva offerta allo sguardo dall’apparire di una giovane donna,
resa ancor più bella e affascinante dal chiarore della candela che la
incornicia agli occhi degli astanti, nell’oscurità del villaggio
rimasto senza energia elettrica.
L’avvicendarsi del
nuovo giorno porterà a compimento la ricerca ma non dissiperà i dubbi
dell’indagine a cui anzi si aggiungono ambigui indizi che la regia
dissemina con minuziosa avarizia. È lento infatti il ritmo di
C'era una volta in Anatolia,
avvolgente e faticoso (ma non parliamo di noia) e occorre tener desta
l’attenzione per non lasciarsi sfuggire sequenze e costrutti
rivelatori: lo scardinamento temporale di alcuni flash-back, il
dialogo strozzato tra l’assassino (?) e il fratello, l’incerta
paternità del ragazzino rimasto orfano, il surplus di brutalità che
scaturisce dalle modalità dell’omicidio (l’uomo è stato sepolto
vivo?). Non bastano il pc portatile e la videocamera degli addetti
all’indagine a dipanare il velo arcaico che avvolge l’Anatolia di Nuri
Bilge Ceylan.
Il suo film, di rare potenza e poesia, vive di emozioni intensamente
cinematografiche: il folgorante contrasto tra oscurità e squarci
luminosi, il pedinare i personaggi inserendoli in un paesaggio che
sembra animarsi di vita propria; e, ancora, quell’indugiare sui volti,
su primissimi piani che sembrano penetrare nello spirito dei
protagonisti, quel pallone calciato nel finale che offre un residuo
suggello di speranza. Ma c’è anche quella goccia di sangue che segna
il viso del medico durante l’autopsia… Tra le tante esistenze
irrisolte
C'era una volta in Anatolia
affida soprattutto a Cemal il compito di condurci in un percorso di
riflessione, di amarezza e inquietudine, ma anche di umanità, di una
pietas con cui, nello stilare il suo rapporto, egli osa contravvenire,
sottacendo, alla propria etica professionale.
Vale la pena allora di ripensare alla scena in cui, ad un certo punto,
il dottore sembra guardare in macchina, rivolto al pubblico; in realtà
Cemal si sta guardando allo specchio! Ecco ciò che Nuri Bilge Ceylan
chiede a noi spettatori: non di compartecipare ad una storia o di
identificarci con un personaggio, ma di trovare, frammento dopo
frammento, sequenza dopo sequenza, lo stimolo per guardare dentro noi
stessi, per usare ancora una volta il cinema d’autore come specchio
del nostro essere.
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