Nella generazione dei registi tra i quaranta e i cinquant'anni (Alexander Payne, Paul Thomas Anderson...), James Gray è il più sottovalutato. Anche questa volta, a Cannes, un suo film è passato sotto silenzio: eppure si tratta di un'opera per molti versi ammirevole, un melodramma austero e classicheggiante che non è assurdo paragonare alle Due orfanelle di Griffith. Anche Marion Cotillard vi è fotografata (grande lavoro in ocra del capo-operatore Darius Khondji) come una diva del cinema muto, donna pia vittima del vizio che pare contornata da un alone di luce glorificante. Piuttosto controcorrente rispetto alle mode cinematografiche, d'accordo: ma il film importante di un regista che il tempo provvederà a risarcire. |
Roberto Nepoti - La Repubblica |
L'incontro fra il David Griffith di Il giglio infranto e Le due orfanelle con il Dostoevskij di Umiliati e offesi o Delitto e castigo; o anche, la miscela di vecchie memorie familiari - i nonni di James Gray erano immigrati ebrei russi - con ardenti empiti operistici. In altre parole, C'era una volta a New York è un puro distillato di melodramma. (...) Con l'occhio ai capolavori del passato, il film ripercorre sia nella struttura narrativa che nel suggestivo apparato formale tutte le tappe d'obbligo del genere, ma la regia magistrale e la densa sensibilità introspettiva di Gray provvedono a far vibrare di nuova vita gli stereotipi; e gli interpreti - l'ispirata, trepida Marion Cotillard e il suo tormentato carnefice Joaquin Phoenix - sono davvero emozionanti. |
Alessandra Levantesi Kezich - La Stampa |
C'è un grande regista americano da liberare dalla nicchia e da mettere in cornice. Si chiama James Gray. Ha alla spalle quattro film: Little Odessa, The Yard, I padroni della notte e Two Lovers. Il quinto, C'era una volta a New York (...). E a conferma che, per quantità, orari, attese troppo caricate e magari stanchezza di fruizione, i festival siano una delle occasioni peggiori per un'immediata e giusta valutazione non influenzata da fattori esterni, onestà vuole così che evidenzi come, dopo una seconda visione, il giudizio salga. Non un titolo in tono minore (che, comunque, per Gray significa sempre un profilo in rilievo) ma un'opera che conserva, sviluppa e imbandisce di preziosi intagli la creatività del suo autore. (...) Non è un caso che la denominazione originale, The Immigrant, echeggi l'omonimo capolavoro di Chaplin datato 1917: C'era una volta a New York è impastato e modellato di quel qualcosa che folgorava le pellicole mute. Già, il melodramma, che è poi, con la famiglia come tema e pendolo ispirativo, il fondamento del cinema di Gray: mélo, contaminato in passato dal thriller o dalla bizzarria di una commedia da alienazione comportamentale, che può, in questa dimensione totalizzante, esplodere e implodere, di emozioni, di dolore, di acuta sofferenza e dissipazione morale dove l'individuo e le regole della comunità non possono non entrare in conflitto. Attraverso una ricostruzione d'epoca esaltante, la macchina da presa arpeggia sui personaggi tuffandoli in un ingranaggio di depravazione, turpitudine, corruzione e sorprendenti scatti di generosità e non immacolato romanticismo. L'occhio di Gray commuove tra pietà, commiserazione e specchio di una normalità abietta dove le 'tortorelle' di Bruno sono in vetrina per i clienti sotto un tunnel di Central Park dopo la cacciata dall'Eden puzzolente del teatro bordello. E per la prima volta Gray sceglie un'eroina come metronomo della storia, come modello di chi lotta per sconfiggere un destino miserando: per Ewa l'interpretazione di Marion Cotillard è uno scandaglio recitativo di valenza indimenticabile con un volto-schermo sul quale scorre la linfa, l'essenza e l'umana cognizione del tradimento, della caduta e del riscatto. Joaquin Phoenix, l'attore feticcio di Gray, è un Bruno bipolare, aggressivo, disarmante, imprevedibile, innamorato, disposto al sacrificio grazie ad un talento che carica l'alter ego di un'energia ad orologeria, alla quale risponde il mago di un Jeremy Renner folletto intenso e dalla duplice marcia tra il seducente e l'ambiguo. La messa in scena di Gray, come nella sequenza dell'epilogo che cita ancora i finali del vagabondo chapliniano ma non con l'ausilio della tendina a cerchio che cattura l'immagine sino a farla sfumare bensì sdoppiando l'inquadratura e la sorte, possiede una maestria così rara nell'Hollywood del Terzo Millennio. C'era una volta a New York affascina e turba come l'Ellis Island che i migranti scambiavano per la porta del paradiso per entrare, invece, nei triboli di un inferno da poveracci. |
Natalino Bruzzone - Il Secolo XIX |
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1921. In cerca di una nuova vita e inseguendo il 'sogno americano', Ewa Cybulski e sua sorella salpano alla volta di New York dalla loro terra d'origine, la Polonia. Quando raggiungono Ellis Island, i dottori scoprono che Magda è malata e le due donne vengono separate: una viene messa in quarantena, l'altra lasciata andare. Ma Ewa si trova sola e spersa nella Grande Mela, alla ricerca di un modo per ricongiungersi alla sorella. Incontra allora Bruno, uomo affascinante ma malvagio, che la trascina in giro di prostituzione. Le cose cambiano da quando arriva Orlando, l'elegante prestigiatore cugino di Bruno: lui le fa recuperare la sua autostima e una speranza in un futuro migliore, ma Ewa non ha fatto i conti con la gelosia di Bruno... Un melodramma formalmente impeccabile, color seppia come le foto d'epoca, costellato di sventurate eroine da romanzo ottocentesco, amori impossibili, ingiustizie sociali, bisogno di riscatto. Il film ripercorre sia nella struttura narrativa che nel suggestivo apparato formale tutte le tappe d'obbligo del genere, ma la regia magistrale e la densa sensibilità introspettiva della regia provvedono a far vibrare di nuova vita gli stereotipi; e gli interpreti - l'ispirata, trepida Marion Cotillard e il suo tormentato carnefice Joaquin Phoenix - sono davvero emozionanti. |